Maltrattamenti in assenza di sudditanza psicologica

I maltrattamenti sussistono anche in assenza di sudditanza psicologica

Con la decisione in commento [1], la Corte di Cassazione annulla una sentenza della Corte di Appello di Milano in materia di maltrattamenti in famiglia, ribadendo un principio in apparenza scontato ma che, a ben vedere, dimostra come la corretta applicazione della norma venga ancora alterata da parte dei giudici di merito.

In particolare, la sottoposizione abituale dei familiari ad atti di vessazione continui, tali da cagionare sofferenze, privazioni ed umiliazioni incompatibili con una normale condizione di vita, integra il reato di cui all’art. 572 c.p., senza che ciò debba comportare necessariamente la presenza di una condizione di sudditanza psicologica rispetto al carnefice. Ed infatti, l’eventuale capacità di resistenza della vittima o il mantenimento di una autonomia decisionale rappresentano elementi strettamente soggettivi che non possono scalfire in alcun modo l’idoneità della condotta a determinare uno stato di sofferenza psico-fisica e, pertanto, la sussistenza del reato.

La vicenda

La Corte di Appello di Milano, riformando la sentenza di condanna di primo grado emessa ad esito di giudizio abbreviato, assolveva l’imputato dai reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale consumata e tentata e tentata violenza privata, commessi nei confronti della compagna, sulla base di una diversa lettura delle dichiarazioni rese dalla vittima. Rispetto al reato di maltrattamenti in famiglia, in particolare, i giudici di appello ritenevano provata la reiterazione abituale di atti offensivi nei confronti della convivente, anche in presenza dei figli minori, e la consapevolezza e volontarietà delle condotte da parte dell’imputato. Tuttavia, escludevano la sussistenza del reato poiché la vittima “non sarebbe rimasta succube delle vessazioni subite” e tra i conviventi non si sarebbe creato “quel rapporto aguzzino-vittima ritenuto necessario ai fini della configurabilità del reato”.

Avverso tale sentenza proponevano ricorso per Cassazione sia il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello che la parte civile, lamentando entrambi l’erronea applicazione della norma penale sulla base di un ulteriore (e del tutto nuovo) elemento costitutivo del reato – lo stato di soggezione della persona offesa – non contemplato dalla fattispecie.

La decisione

I Giudici di legittimità annullano la sentenza d’appello censurando il percorso logico, argomentativo e giuridico utilizzato dalla Corte meneghina. Questa infatti, avrebbe operato una complessiva rivalutazione delle dichiarazioni della vittima, nonché degli ulteriori testimoni vicini ad essa (quali il medico curante o la vicina di casa), sminuendone la portata ed il significato.

In particolare, viene in evidenza la contraddittorietà della decisione impugnata laddove da un lato riconosce espressamente la sussistenza delle condotte vessatorie ed abituali (“non si discute né della valenza offensiva ed umiliante delle ingiurie dirette da […] alla compagna da maggio 2017 a dicembre 2017, né della loro abitualità”), o che siano state commesse in presenza dei figli minori, tuttavia le stesse – nel ragionamento applicato dai giudici di appello – non sarebbero da sole sufficienti ad integrare il reato di maltrattamenti in famiglia.

Nella rivalutazione complessiva delle prove dibattimentali – secondo le quali i messaggi offensivi inviati dall’imputato avrebbero denotato solo una “fondata gelosia per le relazioni con altri uomini”, così da farlo apparire come “un uomo rassegnato e mortificato dal disinteresse fisico della compagna piuttosto che di un predatore incurante del dissenso della donna” – la Corte di appello ha ritenuto che la persona offesa non sarebbe divenuta succube del compagno, tanto che nei messaggi di risposta avrebbe mostrato una certa “solidità emotiva, rispondendo quasi con noncuranza alle accuse di infedeltà” o perfino omettendo la risposta. Tale atteggiamento, così come la scelta – a parere dei giudici di appello – di non interrompere subito la convivenza, dimostrerebbe la mancanza di lesività delle condotte dell’imputato poichè la vittima non si è sentita succube del proprio convivente né sottoposta ad un regime di vita umiliante (“non solo risponde a tono all’imputato in svariate occasioni, ma mostra di non averne alcun timore e, soprattutto, di non sentirsi sottoposta ad un regime di vita umiliante e intollerabile tanto che non accenna mai a volersi separare”). La mancanza di tale elemento, pertanto, escluderebbe la configurabilità del reato di maltrattamenti.

I Giudici di legittimità respingono con decisione un ragionamento siffatto, evidenziando la sua contrarietà non solo rispetto al testo della norma penale ma, soprattutto, ai principi consolidati elaborati dalla giurisprudenza.

L’art. 572 c.p. richiede quale elemento costitutivo del reato una condotta consistente nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita [2]. L’abitualità della condotta, pertanto, deve essere idonea a determinare uno stato di sofferenza e di umiliazione nella vittima senza che, tuttavia, ciò debba necessariamente comportare la riduzione della stessa in uno stato di sudditanza psicologica. L’eventuale indagine sulle conseguenze cagionate sul piano personale alla vittima non è contemplata né richiesta dalla fattispecie: “Rispetto alla struttura del reato, pertanto, non è consentito introdurre un ulteriore elemento costitutivo rappresentato dall’instaurazione di un rapporto di soggezione della persona offesa, proprio perché la norma richiede esclusivamente che siano posti in essere atti idonei a “maltrattare” e, quindi, a provocare una sofferenza morale o psichica che, tuttavia, non deve necessariamente comportare che la vittima risulti soggiogata dall’autore del reato”.

La valutazione circa la minore o maggiore resistenza della vittima o il mantenimento di una autonomia decisionale riguarderebbe profili soggettivi, legati soprattutto alla percezione personale della vittima, che non possono assurgere ad elementi costitutivi del reato. Così ragionando, infatti, “si introdurrebbe un parametro confliggente con il principio di tipicità dell’illecito penale e, peraltro, si farebbe dipendere la configurabilità del reato da un elemento estraneo alla condotta dell’agente e ricollegato alla maggiore o minore sensibilità e capacità di resistenza della persona offesa”.

È evidente come l’introduzione di un simile parametro comporterebbe una diversa valutazione – ed una sicura discriminazione – rispetto alla diversa personalità o carattere della vittima, per non parlare della penalizzazione che si opererebbe rispetto a diverse condizioni economiche o socio-culturali. Ed infatti, stupisce dover ribadire ancora oggi che la mancata separazione o la cessazione della convivenza, nella quasi totalità dei casi, non dipenda dalla presunta “solidità emotiva” della vittima, quanto piuttosto da fattori legati alla condizione economica o alla presenza di figli minori.

Il ragionamento applicato dalla Corte di Appello, peraltro, è smentito dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, ad eccezione di una remota e pressochè isolata pronuncia, risalente al 1966 [3] e che certamente non può ritenersi più applicabile, se non altro per il mutato contesto socio-culturale e la diversa sensibilità raggiunta (o perlomeno così dovrebbe essere) sul tema dei maltrattamenti e le violenze perpetrate in ambito familiare.

Pertanto, l’eventuale grado di reazione o sopportazione della vittima potrà avere rilievo solamente in ordine alla valutazione sull’intensità del dolo o della gravità delle conseguenze subita dalla vittima in termini di danno, ma non potrà certamente costituire elemento costitutivo della fattispecie di reato.

Per tale ragione, i Giudici di legittimità hanno annullato la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per un nuovo giudizio in occasione del quale – si spera – verrà applicato in modo corretto un principio di diritto ma, soprattutto, di civiltà, che non sminuisca né pregiudichi l’apparato delle tutele predisposte dal legislatore a presidio delle vittime di violenze domestiche e familiari.

 

Avv. Valentina Guerrisi

 

 

Riferimenti

[1] Cass. Sez. 6, n. 809 del 12.01.2023, scarica qui.

[2] Cfr. Cass. Sez. 6, n.7192 del 04.12.2003, dep. 2004. Rv. 228461

[3] Cfr. Sez. 2, n. 1719 del 1/12/1965, dep. 1966, Baldacci, Rv.100792, secondo la quale per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia sarebbe necessario che l’autore abbia posto in essere un complesso di attività rivolte, sia oggettivamente sia nella rappresentazione dello stesso soggetto, all’avvilimento o alla durevole oppressione della vittima

 

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