Violazioni delle misure dei DPCM COVID-19 e fattispecie penali
(Dalla inosservanza dei provvedimenti dell’autorità all’omicidio preterintenzionale, passando per le lesioni volontarie, fino a giungere alle ipotesi di epidemia dolosa e colposa).
Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020 ha esteso all’intero territorio nazionale le misure previste dal DPCM 8 marzo 2020 allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus SARS–CoV–2.
Tali disposizioni vanno dalla forte limitazione della libertà di movimento sul territorio nazionale, al divieto di assembramenti di persone, alla raccomandazione di rimanere presso il proprio domicilio per i soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre, fino al “divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus”.
Per chi contravviene alle disposizioni previste da tali decreti, l’art. 4, comma 2 del DPCM 8 marzo 2020 prevede che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6.”
A prescindere da quella citata, è lo stesso codice penale a fornire un ventaglio di norme incriminatrici applicabili ai vari e diversi casi di violazione delle disposizioni del DPCM e, soprattutto, a punire condotte talmente gravi da generare attuali e potenziali conseguenze per l’incolumità individuale e la salute pubblica.
Occorre pertanto esaminare una serie di “casi-tipo” per valutarne la rilevanza penale e gli strumenti a cui la Polizia Giudiziaria e l’Autorità Giudiziaria possono fare ricorso.
Innanzitutto, abbiamo appurato che chi non rispetta gli obblighi del DPCM viola l’art. 650 c.p.: ma di cosa si tratta?
Intitolata “Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”, la norma dispone che “chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206.”
Si tratta di una contravvenzione – categoria di reato meno grave rispetto al delitto – per la cui sussistenza non è necessario l’accertamento della natura dolosa o colposa dell’elemento psicologico.
È un reato omissivo proprio, perché richiede che il soggetto ponga in essere una condotta contraria ad un obbligo posto da un provvedimento amministrativo. È un reato di pericolo, posto a tutela dell’ordine pubblico e della collettività.
In caso di accertata violazione della disposizione, non è tuttavia possibile applicare misure di natura c.d. precautelare (come ad esempio l’arresto in flagranza dell’autore della condotta). Pertanto, allo stato, il responsabile della violazione viene denunciato “a piede libero” all’Autorità Giudiziaria. Tale aspetto problematico risulta potenzialmente critico in presenza di reiterate e sistematiche violazioni, poiché – pur nella certezza della futura sanzione – l’Autorità è sprovvista di elementi che garantiscano l’immediata effettività delle misure del DPCM.
Pertanto, per il soggetto “negativo” (o presunto tale) che semplicemente non rispetta le disposizioni del DPCM non paiono allo stato ravvisarsi altre fattispecie penalmente rilevanti, salvi i casi in cui, durante un controllo dell’autorità, il privato fornisca dichiarazioni false rispetto alle esigenze che giustifichino il suo spostamento. Tale condotta è perseguibile ai sensi dell’art. 495 c.p. (“Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”) ed è punibile con la reclusione da uno a sei anni; in questi casi la polizia giudiziaria potrà ricorrere all’arresto facoltativo in flagranza, ai sensi dell’art. 381 c.p.p..
Di seguito, è opportuno invece interrogarsi rispetto ad altri due “casi-tipo”: cosa accade se a violare le disposizioni è un soggetto sottoposto a quarantena? E se invece si tratta di un individuo c.d. “positivo”?
Innanzitutto, si ricorda che per quarantena si intende la misura “con sorveglianza attiva, per giorni quattordici, agli individui che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva COVID-19” (come previsto dall’ordinanza del Ministero della Salute del 22.02.2020); invece il soggetto positivo è colui che, sottoposto a specifico test, sia risultato affetto dal virus SARS–CoV–2.
Stante la sicura violazione dell’art. 650 c.p., lo stesso art. 4, comma 2 del DPCM 8 marzo 2020 contiene una clausola di salvaguardia che esclude l’intervento di tale fattispecie contravvenzionale in presenza di altra e più grave fattispecie di reato (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”).
Innanzitutto, appare necessario perseguire chi metta a repentaglio l’incolumità personale (o addirittura la vita) di altri soggetti, inconsapevolmente esposti al contatto con chi viola la quarantena o, ancor peggio, con chi è certamente affetto dal virus e, quindi, contagioso. Sul punto, si segnala che la principale differenza tra il primo ed il secondo caso risiede nella consapevolezza del soggetto rispetto alla propria condizione: se il sottoposto a quarantena può nutrire dei dubbi in ordine alla sua positività alla malattia, il positivo è certamente consapevole di esserne affetto.
La condotta in parola è in astratto compatibile con il reato di lesioni personali dolose di cui all’art. 582 c.p. il quale prevede, al primo comma, che “chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.” È questa una fattispecie di delitto a forma libera, che si perfeziona al momento della causazione di una malattia fisica o mentale, il cui trattamento sanzionatorio (e regime di procedibilità) è calibrato innanzitutto in relazione alla gravità della lesione causata, oltre che alla sussistenza di ulteriori aggravanti. Inoltre, il nostro ordinamento prevede anche un’ipotesi delittuosa di lesioni colpose, ai sensi dell’art. 590 c.p..
In base a tali presupposti, si dovrà valutare (ancorché in via ipotetica ed astratta) la casistica citata alla luce di due importanti variabili: innanzitutto, se il reato di lesioni si sia o meno già perfezionato; in secondo luogo, quale sia l’elemento psicologico dell’autore della condotta lesiva.
In presenza di un evento lesivo già avvenuto, se l’agente è il malato verificato di COVID-19 non paiono esserci dubbi rispetto alla potenziale dolosità della sua condotta: quest’ultimo, che nella consapevolezza della sua patologia si sottrae all’isolamento e si espone volontariamente al contatto con altri soggetti così da causarne il contagio, è perseguibile per lesioni volontarie, dovendosi esclusivamente valutare se nella forma del dolo diretto o, perlomeno, eventuale. A prescindere dal tipo di dolo configurabile, per le lesioni volontarie è previsto l’arresto facoltativo in flagranza (ex art. art. 381 c.p.p.).
Invece, nel caso di semplice violazione della quarantena da parte di soggetto “sospetto” (ma non verificato) da cui consegua il contagio di altri individui, ci si dovrà domandare se la lesione sia compatibile con una forma dolosa (in termini di dolo eventuale) o esclusivamente colposa.
In questo caso, il confine tra psicologica “accettazione” del rischio di contagiare (dolo eventuale) e rifiuto di questa possibilità (colpa, seppur eventualmente aggravata dalla previsione) è piuttosto labile, nonché particolarmente difficile da supporre in astratto, nonostante le conseguenze in termini di sanzione siano decisamente rilevanti. Tuttavia, è altamente probabile che si possa preferire il ricorso all’ipotesi di lesione colposa, come prevista dall’art. 590 c.p.; in questo caso non sarà possibile ricorrere all’arresto facoltativo ex art. 381 c.p.p..
Cosa accade invece quando la lesione non si sia verificata? In questo caso la differenza tra lesioni dolose e colpose coinvolge anche ulteriori aspetti, forieri di importanti ricadute sugli operatori di polizia.
In primo luogo, la configurabilità del tentativo (ex art. 56 c.p.) – “atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto” laddove l’azione non si compia o l’evento non si verifichi – è sicuramente esclusa in ogni caso di delitto colposo e, inoltre, non è immediatamente ravvisata dalla giurisprudenza nemmeno nei casi di dolo eventuale. Anzi, l’orientamento consolidato ritiene che vi sia una effettiva incompatibilità tra l’univocità degli atti richiesta dal tentativo ed il dolo eventuale (Cass. Sez. VI, n. 14554 del 09.04.2015).
Può essere arrestato un infetto che viola la quarantena per tentate lesioni volontarie? Sì, certamente, se sarà possibile considerare, ancorché in via indiziaria, il suo dolo come diretto (ad esempio nel caso di soggetto positivo e verificato che violi l’isolamento domiciliare e si rechi al supermercato senza indossare mascherina protettiva e guanti); al contrario, se il dolo sarà configurabile come eventuale (ad esempio soggetto positivo e verificato che violi l’isolamento domiciliare per fare una passeggiata pensando di non incontrare nessuno), non si potrà perseguire l’autore per tentate lesioni e, dunque, non lo si potrà arrestare.
Allo stesso modo, nei riguardi del “sospetto” non verificato non potrà procedersi ad arresto ex 381 c.p.p. in assenza di evento lesivo: infatti, le lesioni colpose o, al più, le lesioni causate con dolo eventuale sono entrambe ipotesi incompatibili con la perseguibilità del delitto tentato ex art. 56 c.p.p..
E cosa succede, invece, se dal contagio causato dal positivo o dal “sospetto” che sfugge alla quarantena derivi la morte di altre persone?
Nella consapevole difficoltà di questo gioco dei “se”, si potrebbe ragionare (in presenza di altre rilevanti caratterizzazioni di fatto, quali, ad esempio, il positivo che “sputa” ad un’altra persona, oppure il positivo che in piena consapevolezza entra in contatto con i soggetti più deboli) di fattispecie ben più gravi delle mere lesioni personali, quali l’omicidio volontario, preterintenzionale (art. 584 c.p.), colposo (art. 589 c.p.) o le c.d. “morte o lesioni” quali conseguenze di altro delitto di cui all’art. 586 c.p..
In particolare, l’art. 584 c.p. (omicidio preterintezionale) è strettamente legato alla fattispecie di lesioni, prevedendo che sia punito con la reclusione da dieci a diciotto anni “chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 e 582, cagiona la morte di un uomo”.
L’incertezza sugli esiti clinici del contagio tramite SARS–CoV–2 e del decorso del COVID–19 rende possibile che una condotta (volontaria) idonea a cagionare le lesioni derivanti da tale malattia, possa integrare un’ipotesi di omicidio preterintenzionale (cioè “oltre l’intenzione”) laddove si verifichi la morte del contagiato. Quest’ipotesi pare riferibile al positivo autore della lesione volontaria: ad esempio soggetto positivo e verificato che violi l’isolamento domiciliare per ricongiungersi al nucleo familiare di origine, tacendo la propria condizione di salute, causando il contagio degli anziani nonni da cui derivi la morte degli stessi; lo stesso non può dirsi nel caso di soggetto positivo ma non verificato e quindi mero “sospetto”, al più perseguibile per omicidio colposo, qualora dalla sua condotta derivi causalmente la morte del soggetto contagiato.
In secondo luogo, l’art. 586 c.p. prevede che, a seguito di una condotta delittuosa dell’agente (già punibile in sé), si realizzi come conseguenza (non solo non voluta ma anche non prevista) la morte o le lesioni di un altro soggetto. L’esempio “scolastico” riguarda lo spacciatore che cede lo stupefacente e la sua eventuale responsabilità per la successiva morte dell’assuntore. In via prioritaria, bisogna innanzitutto sottolineare che il reato presupposto dell’art. 586 c.p. deve essere un delitto: pertanto, la mera violazione della contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. (seppur ravvisabile nella condotta tanto del “sano” che viola il DPCM, quanto di chi è positivo o sottoposto a quarantena) non potrà fungere da ancoraggio per la contestazione dell’ipotesi delittuosa citata.
Oltre ai delitti contro la persona appena considerati, il nostro ordinamento prevede anche delle fattispecie a tutela dell’incolumità pubblica, da valutare in relazione alla condotta del sottoposto a quarantena o del positivo che violino le misure del decreto.
Il delitto di epidemia dolosa previsto dall’art. 438 c.p. (e dall’art. 452 c.p., nella sua forma colposa) prevede che “Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo. Se dal fatto deriva la morte di più persone, si applica la pena [di morte]” (quest’ultima sostituita all’interno delle disposizioni che la prevedevano con la pena dell’ergastolo).
Si tratta di un reato posto a tutela dell’integrità pubblica e della salute della collettività, che si integra laddove alla condotta di diffusione dei germi patogeni segua un’epidemia. Quest’ultima è integrata da una “facile trasmissibilità della malattia ad una cerchia ancora più ampia di persone” (cfr. Cass. Sez. I, n. 48014 del 26.11.2019, Talluto).
Si consuma nel momento in cui alla condotta della diffusione segua l’epidemia. Nel diritto penale e nella giurisprudenza della Cassazione, il fenomeno epidemico viene definito come “una malattia contagiosa con spiccata tendenza a diffondersi, sì da interessare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, un numero rilevante di persone, una moltitudine di soggetti, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e agevole propagazione del contagio, un pericolo di infezione per una porzione ancora più vasta di popolazione” (Ibidem).
Verrebbe da pensare che il fenomeno di cui qui si parla ben risponda a quello del COVID–19, caratterizzato da un’alta contagiosità e da una diffusività molto rapida ed agevole.
L’elemento soggettivo dell’art. 438 c.p. è il dolo generico ed è possibile che sia integrato anche dal dolo eventuale (consistente nell’accettazione del rischio di cagionare un’epidemia in conseguenza della propria condotta diffusiva); inoltre, per tale fattispecie è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
Invece, il reato di cui all’art. 452 c.p. (epidemia colposa), punibile anche solo a titolo di colpa, è sanzionato con la reclusione da 3 a 12 anni (nell’ipotesi aggravata dell’art. 438 c.p.) o da 1 a 5 anni (nell’ipotesi base dell’art. 438 c.p.) e rientra nei delitti per cui si può eseguire l’arresto facoltativo ex art. 381 c.p.p..
La natura del reato in parola (sia in forma dolosa che colposa) consente di escludere, in astratto, una sua configurabilità in capo al semplice “sospetto” non verificato che violi la quarantena: e ciò sia in ragione della concreta contagiosità del soggetto (difficile da verificare) che in riferimento alla sussistenza di un accertabile elemento psicologico.
Per quanto riguarda l’individuo positivo verificato, risulta invece più agevole la contestazione della fattispecie in parola, soprattutto ai sensi dell’art. 452 c.p.: infatti, il reato di epidemia colposa è più facilmente ravvisabile nella condotta del positivo verificato che decida di circolare liberamente in violazione delle disposizioni del DPCM (ed a prescindere dalla volontarietà della diffusione).
Proprio quest’ultima ipotesi – trattandosi di reato colposo (che va esente da complessi ragionamenti sulla sussistenza dell’elemento volontaristico doloso, da valutare molto attentamente in relazione ad ogni singolo caso) – appare una fattispecie più agevolmente contestabile ai soggetti positivi verificati che abbiano violato le misure di isolamento.
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