Studio Legale De Vita -La solitudine del medico tra etica e responsabilità giuridica

La solitudine del medico tra etica e responsabilità giuridica

Abstract

La pandemia di Sars-Cov-2 sta mettendo a dura prova la tenuta dei sistemi economici, sociali e giuridici su cui si fondano le democrazie occidentali. Pur nelle grandi differenze di tradizione filosofica e giuridica, quest’ultime sono accomunate nella necessità di gestire il cd. “Stato di eccezione”, capace di stressare il rapporto tra bene comune e diritti individuali fino ad un livello mai sperimentato prima.

Nel nostro Paese, tra le molteplici criticità da fronteggiare, emerge in maniera dirompente la questione della responsabilità giuridica degli operatori sanitari in tempo di emergenza.

Molte sono le polemiche sulle iniziative legali per i casi di malpractice in ambito Covid-19 [1] ed emergono sempre più evidenti le responsabilità nella pianificazione della politica sanitaria e nella gestione organizzativa concreta; ma, nello stesso tempo, si accendono dibattiti tra giuristi, medici, politici sulla possibilità (ed opportunità) di ricorrere ad una sorta di “scudo medico”, che consenta agli operatori sanitari (ma non solo a questi) di beneficiare della protezione da azioni di responsabilità (civile, penale, ecc.) a fronte della straordinarietà della situazione in essere.

È, tuttavia, evidente come gli sforzi attuali dei medici e degli operatori sanitari vadano ben oltre la retorica degli “eroi in corsia”, dovendosi invece misurare, da un lato, con un sistema sanitario colpevolmente inefficiente ed inadeguato e dall’altro, con il dovere – morale prima che giuridico – ed il dolore di prendere decisioni “tragiche”.

Tra queste scelte, la più difficile e “odiosa”, riguarda la gestione dell’accesso ai trattamenti intensivi dei pazienti, che, in presenza di un grande e perdurante squilibrio tra necessità di cura e risorse sanitarie disponibili, si potrebbe tradurre nel decidere chi curare e chi no.

1. Se scegliere chi curare diventa inevitabile: diritto alla salute e risorse scarse.
1.1. La peculiarità della pandemia di Covid-19.

Quello della responsabilità della scelta è uno dei grandi dilemmi su cui scienza, diritto e, quindi, bioetica si interrogano da decenni; tuttavia, ciò che per lungo tempo è rimasto confinato nei dibattiti ideologici, ha assunto in epoca pandemica carattere di particolare concretezza e urgenza.

Ben prima dell’emergenza Covid-19 (che sicuramente costituisce un outlier), il tema delle risorse scarse (cd. “shortage”) era ampiamente emerso nel dibattito bioetico: accesso ai trapianti, gestione del pronto soccorso, medicina di guerra e delle catastrofi.

Tuttavia, la pandemia in atto è caratterizzata dalla compresenza di due fattori.

Da un lato, la scarsa disponibilità di risorse (in particolare di letti nei reparti di terapia intensiva e macchinari per la ventilazione, ma anche di personale) non ha carattere sincronico, ma diacronico. Per esemplificare, gli operatori medici di Pronto Soccorso si confrontano quotidianamente con la valutazione di gravità dei pazienti e conseguente più immediata necessità di accesso alle cure, attraverso il cd. “triage” (di cui si dirà oltre): questa attività consente di superare la momentanea riduzione di risorse, mirando a garantire in tempi differenti il trattamento di tutti. Ebbene, la scarsità di risorse determinata dal Covid-19 ha carattere di permanenza nel tempo, che impedisce di valutare tale variabile come transitoria in un breve arco temporale.

In secondo luogo, le situazioni emergenziali – connesse, ad esempio, a catastrofi naturali – sono spesso caratterizzate da una circoscritta collocazione spaziale, che favorisce il ricorso a risorse (umane e materiali) di altri contesti territoriali prossimi sul medesimo territorio nazionale. La diffusione del virus Sars-Cov-2 rende difficilmente percorribile anche questa soluzione.

La compresenza di entrambi i citati fattori solleva un ulteriore interrogativo con cui confrontarsi: consentire l’accesso “indiscriminato” ad un determinato tipo di cure, anche laddove non ponga di fronte ad un immediato aut/aut, realizza una riduzione di risorse disponibili per gli eventuali pazienti successivi, che potrebbero non essere curati, nonostante presentino probabilità di successo delle cure maggiori. Seppur rispettoso del diritto individuale alla salute, in un contesto di shortage così importante, possiamo considerare “giusto” un potenziale cattivo investimento di cure?

E se i più potranno obiettare che, al netto di casi eccezionali, l’impellenza di scegliere quale paziente sottoporre a cure intensive e quale no non rappresenta la sfida quotidiana della nostra sanità pubblica[2], non si può tuttavia trascurare la necessità di tutelare il singolo medico, anticipando situazioni critiche che non sono più meramente possibili, ma altamente probabili.

1.2. Le Raccomandazioni di Etica Clinica della SIAARTI.

Questo è stato l’approccio seguito dalla SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), che il 6 marzo scorso ha pubblicato le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” [2].

Si tratta di un documento tecnico, costituito da 15 raccomandazioni fornite a tutti quegli operatori sanitari (in particolare anestesisti e rianimatori) che costituiscono la “prima linea medica” nella lotta contro una maxi emergenza senza precedenti.

D’altro canto, è lo stesso Gruppo di Lavoro della SIAARTI, rimarcando l’eccezionalità della situazione, ad evidenziare come “la disponibilità di risorse non entra solitamente nel processo decisionale e nelle scelte del singolo caso, finché le risorse non diventano così scarse da non consentire di trattare tutti i pazienti che potrebbero ipoteticamente beneficiare di uno specifico trattamento clinico”.

Proprio per tale ragione, il documento sottolinea che eventuali criteri di razionamento rappresentano l’extrema ratio: prima di ricorrervi, devono essere stati compiuti tutti gli sforzi necessari (e da parte di tutti i soggetti coinvolti) per aumentare la disponibilità di risorse e valutare ogni possibilità di trasferimento dei pazienti bisognosi di cure. In particolare, si tratta di cure intensive che, per i pazienti Covid-19, sono spesso prolungate nel tempo e bisognose di ventilazione – assistita e non.

Laddove ciò non sia possibile, la SIAARTI propone di valutare, per tutti i pazienti con necessità cliniche di terapia intensiva (quindi, non solo i Covid-19), criteri di ammissione che, sebbene straordinari e flessibili in base ai vari contesti locali, tengano innanzitutto in conto della necessità di introdurre un limite di età nell’accesso alla terapia intensiva.

Definita come una scelta “non meramente di valore”, essa ha lo scopo di considerare in primis le probabilità di sopravvivenza e, in secundis, gli “anni di vita salvata”, per massimizzare il rapporto tra benefici e numero di persone che ne possano godere: secondo la SIAARTI, infatti, nello scenario peggiore, definito di “saturazione totale”, ricorrere al criterio di “first come, first served” equivarrebbe comunque a scegliere di non curare in terapia intensiva eventuali pazienti successivi, che ne rimarrebbero esclusi.

Accanto a questo, secondo il documento, devono essere altrettanto valutati la presenza di comorbidità e lo status funzionale del paziente, essendo altresì evidente che il decorso della malattia in pazienti anziani, fragili e con comorbidità severa possa avere una durata e una probabilità di successo ben diversa rispetto ai pazienti in buono stato di salute.

La SIAARTI, inoltre e coerentemente, si raccomanda che eventuali decisioni di “non appropriatezza” nell’accesso in T.I. (“ceiling of care”) siano motivate, comunicate, documentate; inoltre, nel documento si auspica che i citati criteri di accesso siano discussi con anticipo per ogni paziente e riguardo al singolo caso e, soprattutto, che – in caso di accesso alle cure – i medesimi pazienti (soprattutto quelli ammessi con criteri borderline) vengano sottoposti ad una rivalutazione periodica, così da valutare una eventuale “desistenza terapeutica”.

Quanto finora riassunto, rappresenta l’aspetto più critico delle raccomandazioni etiche, su cui sono intervenuti autorevoli esponenti della comunità medica [3], giuridica e di bioetica; ed infatti, sebbene risulti altrettanto interessante esaminare i restanti punti del documento (non privi di spunti di discussione e riflessione), appare necessario individuare un focus preciso sul tema della scelta del medico e dei criteri di accesso alle ICU (Intensive Care Units), in presenza di risorse scarse.

1.3. Lo “shortage” tra principi etici e problemi concreti: spunti di riflessione.

Occorre premettere che la problematica dell’allocazione delle risorse sanitarie è argomento di particolare complessità con cui tutti i sistemi occidentali hanno dovuto confrontarsi, declinandolo in relazione ad ulteriori temi trasversali e multidisciplinari.

Per questo motivo, i vari modelli “etici” di riferimento in materia di allocazione delle risorse risentono della tradizione storica e filosofica di un determinato contesto e, in ogni caso, contemperano svariati criteri: criteri giuridici, clinici, etici ed economici [4].

In quest’ottica, due sono i principali ambiti di sviluppo del tema, non necessariamente in rapporto diretto tra loro: la “macro-allocazione”, che riguarda il bilancio annuale dello Stato e l’assegnazione delle risorse in sede regionale o statale; la “micro-allocazione” (c.d. “bedside”): questa riguarda invece il problema “concreto, individuale e urgente” [5] dell’impiego delle risorse al momento e nel luogo disponibili, nei confronti dello specifico individuo bisognoso.

Sebbene verso quest’ultima sia orientata la presente analisi, non si può che concordare con quanto affermato dal Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica Prof. Lorenzo D’Avack, secondo cui per l’Italia “questa vicenda pandemica evidenzia una questione generale di macro responsabilità legata a una lunga catena di scelte fatte in passato e di cui oggi si vedono le conseguenze”.

Ed infatti “Il Covid-19 ha fatto toccare con mano il fatto che a fronte di una pandemia i nostri ospedali mancano delle attrezzature necessarie e nella quantità necessaria”, mettendoci dinanzi ad una crisi non “meramente clinica, bensì anche prevalentemente sanitaria”: “D’altronde per decenni invece di occuparci realmente, anche a costi contenuti, ma mirati, di migliorare le condizioni dell’assistenza e degli ospedali, e di assicurare ai pazienti cure in tempi adeguati, le classi di governo di diverse Regioni hanno fatto uso delle risorse in altro modo” [6].

In altri termini, a prescindere dal modello “ideico” adottato, nel nostro Paese la macro-gestione ordinaria dell’organizzazione delle risorse sanitarie si è dimostrata insufficiente e fallace: pertanto, attribuire unicamente alla straordinarietà della situazione in atto le difficoltà attuali è non solo miope, ma anche pericoloso nelle conseguenze.

Una di queste, ad esempio, è proprio quella di lasciar ricadere sul singolo operatore medico il solitario fardello di scelte “tragiche” nella gestione del bedside: il documento della SIAARTI, al netto di valutazioni nel merito delle scelte, ha sicuramente tentato di scongiurare questo isolamento individuale ed è, per tale motivo, meritevole di grande attenzione.

Entrando nel merito del documento, secondo gli studiosi le raccomandazioni della SIAARTI volgono – in maniera più o meno esplicita – verso un modello etico cd. “utilitarista”: quest’ultimo si basa sul calcolo costi/benefici, individuando la propria “giustizia” nella realizzazione del maggior beneficio per il maggior numero di persone attraverso l’erogazione dell’assistenza sanitaria.

Seppur estraneo alla tradizione dei Paesi dell’Europa mediterranea, questo modello ispira in via generale – e non solo nelle situazioni di emergenza – il sistema sanitario di altre nazioni: ad esempio, in Gran Bretagna si applica il criterio della “massima utilità”, stabilita in ragione di indici econometrici, tra cui il “QUALY”, Quality Adjusted Life Years [7].

In altri termini – e come riassunto dalla Vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica Prof.ssa Palazzani – si ritiene giusta la selezione nella assegnazione delle risorse limitate di accesso alle cure quando questa “raggiunge, a parità di spesa, il miglior risultato pragmatico possibile in rapporto alla convenienza ed efficienza, dunque numero di pazienti che sopravvivono, anni di vita da vivere, con qualità. Nella scelta selettiva del paziente da curare ed assistere si privilegia chi ha maggior probabilità di tornare ad una vita proiettata nel futuro di buona qualità con costi contenuti” [8].

In quest’ottica, i criteri promossi nelle raccomandazioni SIAARTI – tra cui la deroga al criterio del “first come, first served” ed il limite di età nell’accesso alla terapia intensiva – non mirano esclusivamente alla valutazione della appropriatezza clinica (in cui l’età concorre nella valutazione prognostica come coefficiente probabilistico di successo del trattamento e, di conseguenza, di probabilità di sopravvivenza del soggetto), ma anche a criteri di giustizia distributiva e appropriatezza della distribuzione delle risorse.

In altre parole, il diritto alla salute individuale (tutelato in primis dall’art. 32 della Costituzione) potrebbe assumere carattere di recessività di fronte al bene comune di salvare quanti più individui possibile (a cui sia garantita, probabilisticamente, una vita più lunga e dignitosa possibile) a fronte di mezzi che non consentono di curare tutti: questo risulta particolarmente evidente nel momento in cui, a parità di condizioni cliniche, si debba privilegiare il soggetto con il “maggior numero di anni di vita salvata”.

Al contrario, il nostro modello Costituzionale è definibile di natura “personalista”, in cui la salute è un diritto fondamentale della persona e rappresenta un ambito inviolabile della dignità umana; d’altro canto, è innegabile che l’applicazione “ordinaria” di questo criterio sia percorribile solo laddove il diritto alla salute non costituisca un diritto fondamentale dell’individuo, consistendo di fatto in una limitazione di accesso all’assistenza sanitaria a determinati gruppi sociali, tra cui anziani, indigenti e disabili [9].

Per questo motivo, né la Costituzione, né le norme deontologiche potrebbero giustificare in astratto il ricorso a criteri che esulino dall’appropriatezza clinica; in caso contrario, si incorrerebbe in una forma di discriminazione.

In tal senso si esprime l’art. 6 del Codice di deontologia medica: “Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse. Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure”.

D’altro canto, il cuore della tematica in parola è, a parere di chi scrive, il seguente: è ammissibile una “deviazione” dal modello etico e giuridico storicamente adottato in presenza di (e limitatamente a) situazioni eccezionali e di emergenza (potenzialmente assimilabili alla medicina di guerra o delle catastrofi) come quella in atto?

1.4. Shortage e Covid-19: quali soluzioni?

A ben vedere, né la nostra Repubblica né, tantomeno, la nostra Costituzione hanno mai affrontato un contesto emergenziale così diffuso sul territorio nazionale e così perdurante nel tempo. In questo senso, non si può tentare di applicare rigidamente ad una situazione impronosticabile un paradigma giuridico che non ha vissuto altre prove di resistenza paragonabili; pertanto, si ritiene opportuno un approccio al tema elastico, laico e comparato, nella consapevolezza che non esiste una soluzione univoca agli interrogativi sollevati e nella corrispondente certezza che ignorare la domanda non costituirà mai una risposta soddisfacente.

A tal proposito, è interessante esaminare le reazioni sul tema a livello internazionale, strettamente relative all’emergenza Covid-19: ad esempio, anche in Spagna la “Sociedad Española de Medicina Intensiva Crítica y Unidades Coronarias (SEMICYUC) y Sociedad Española de Enfermería Intensiva y Unidades Coronarias (SEEIUC)” con il “Plan de Contingencia para los Servicios de Medicina Intensiva frente a la pandemia COVID- 19” ha adottato criteri simili a quelli della SIAARTI.

Un percorso differente, tendente all’applicazione della teoria “egualitaria”, è invece segnato dalla Belgian Society of Intensive care medicine: nel documento di riferimento [10] si dice che “nonostante l’età avanzata sia associata a peggiori esiti in COVID-19, l’età isolatamente non può essere usata per decisioni di triage, ma dovrebbe essere integrata con altri parametri”; “molti pazienti di COVID-19 sono anziani, ma l’età in sé non è un buon criterio per decidere sulla sproporzionalità delle cure. Le priorità dovrebbero essere decise sulla base della urgenza medica. In caso di urgenza medica comparabile, il principio “first come first serve”, e il criterio “random” sono i più utili e equi”.

Come evidenziato anche dalla Prof.ssa Palazzani, questo approccio si fonda sul principio di urgenza successivo (first come first served) e, in caso di pazienti contestuali, sul sorteggio, ritenendo più “giusta” la casualità di qualsiasi possibile scelta che potrebbe risultare discriminatoria.

Anche il Comitato sammarinese di Bioetica [11], in un parere richiesto sul tema specifico dell’uso della ventilazione assistita in pazienti affetti da disabilità durante la pandemia di Covid-19, ha ribadito che l’unico criterio per valutare la priorità dei trattamenti è la corretta applicazione del triage, poiché idoneo a garantire il rispetto della vita umana “indipendentemente dall’età, dal genere, dall’appartenenza sociale o etnica, dall’abilità”.

Ancor più di recente, poi, il Comitato Bioetico Internazionale (IBC) e la Commissione Mondiale per l’Etica della Conoscenza Scientifica e delle Tecnologie (COMEST) dell’Unesco, pur riconoscendo l’influenza delle scelte politiche di macro-allocazione sulla micro-allocazione delle risorse nel cd. “patient triage” e la crescente difficoltà legata al contesto pandemico, hanno statuito che “Macro- and micro-allocation of healthcare resources are ethically justified only when they are based on the principle of justice, beneficence, and equity. In the case of patient selection when there is a shortage of resources, clinical need and effective treatment should be of prior consideration. Procedures need to be transparent and should respect human dignity[…]” [12].

Ad ogni modo, ciò su cui i commentatori e gli studiosi concordano è la necessità di una valutazione “caso per caso”, che si fondi innanzitutto sui principali criteri di obiettività clinica e scientifica per valutare efficacia e proporzionalità del trattamento: in altre parole, “la valutazione medica oggettiva, caso per caso, della condizione clinica, dell’urgenza, della gravità, della eventuale presenza di altre malattie e della presumibile efficacia prognostica del trattamento in termini di probabile guarigione, secondo i criteri di proporzionalità ed appropriatezza” [13] rappresenta l’unico criterio sicuramente rispettoso dei principi di equità e non discriminazione.

Tuttavia, gli stessi concordano sulla necessità di coltivare una discussione bioetica collegiale, così come di favorire “l’istituzione di organi specifici, multidisciplinari, dotati delle necessarie conoscenze, competenze e capacità” [14].

La prima consentirebbe di adottare criteri di gestione dello shortage in grado di contemperare esigenze e punti di vista più vasti (e non limitati al focus di anestesisti e rianimatori, come nel caso del documento SIAARTI), così come di modulare tali criteri in relazione alle specifiche fasi dell’emergenza pandemica.

La seconda, invece, consentirebbe un’immediata consultazione di comitati etici (da istituire nelle strutture dove non siano previsti) che sollevino il singolo operatore dal peso di scelte etiche così responsabilizzanti dal punto di vista umano, morale e, inevitabilmente, giuridico.

Il documento di SIAARTI rappresenta sicuramente un lucido tentativo di fornire criteri di indirizzo e strumenti interpretativi ai medici più esposti [15], sebbene, allo stato, presenti svariati profili di criticità, sia in relazione al quadro costituzionale vigente, che a taluni degli indirizzi adottati a livello internazionale nella gestione dell’emergenza Covid-19.

2. Se scegliere chi curare diventa inevitabile: la responsabilità penale del medico.

L’ampia riflessione svolta chiarisce i termini di complessità della questione, ma non risolve il dilemma del singolo medico, né può avere la pretesa di farlo. D’altro canto, non si può nemmeno attribuire alla bioetica il compito di risolvere tout court ed in maniera univoca il problema dell’allocazione delle risorse scarse: al contrario, “compito della bioetica è quello di indicare e giustificare i criteri etici di riferimento su un piano inevitabilmente astratto, rispetto alla concretezza della drammaticità di chi si trova in prima linea” [16].

Ciò che però si potrà chiarire, invece, riguarda i contorni della responsabilità penale del singolo medico che si trovi ad operare in tale contesto: le riflessioni successive saranno infatti utili a comprendere se sia necessario o meno rivalutare la configurazione della responsabilità penale per colpa medica durante l’emergenza da Covid-19 e, ancor più, se uno (e che tipo di) “scudo medico” sia la risposta legislativa adatta.

2.1. L’art. 590 sexies c.p..

Il medico che si trovi nella condizione di dover scegliere come gestire le cure in un momento di emergenza si deve sicuramente affidare alle regole di triage. Queste ultime sono costruite in modo da delineare un percorso di scelta per il sanitario tramite una rapida valutazione delle situazioni dei pazienti. Si tratta di un intervento selettivo, che consente di scegliere quale sia il percorso terapeutico più adatto al caso concreto; d’altro canto, si evidenzia come, senza pretesa di esaustività, le medesime regole di triage abbiano una differente configurazione a seconda che quest’ultimo si applichi nella maxi-emergenza territoriale o nei presidi ospedalieri [17].

Quando si versi, come in questo caso, in una situazione di emergenza, le regole di triage hanno anche lo scopo di determinare quale vantaggio maggiore possa essere conseguito non solo in funzione della cura del singolo paziente, ma anche in termini di massimo beneficio collettivo e di migliore allocazione delle risorse. Alla prima valutazione dei pazienti, inoltre, ne seguono altre che, a distanza di tempo, consentano di riesaminare le condizioni degli stessi e la possibilità di impiegare le risorse, la cui disponibilità varia a sua volta con l’evolversi dell’emergenza [18].

Ciò premesso, bisognerà considerare l’eventualità che, a seguito delle scelte in emergenza del medico, si verifichino eventi avversi, come morte o lesioni di uno o più pazienti: quando la condotta del medico è penalmente rilevante?

In materia di responsabilità colposa del medico, l’analisi dell’articolo 590 sexies c.p. e i successivi arresti giurisprudenziali ci consentiranno di delinearne i principali profili.

Rubricata “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”, la norma formula espressamente la seguente causa di non punibilità: “Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto” [19].

Nonostante nascesse con l’intento, tra gli altri, di “aumentare le garanzie e le tutele per gli esercenti la professione sanitaria” [20], solo un successivo intervento delle Sezioni Unite – la c.d. sentenza “Mariotti” (Cass. Pen. SS.UU., 22 febbraio 2018, n. 8770) – ha chiarito l’interpretazione di tale disposizione.

La Corte ha ritenuto corretto recuperare il concetto di “colpa lieve” (che verrebbe sotteso dalla norma), delineando i seguenti principi di diritto, da seguire per valutare l’applicazione della causa di non punibilità e, di conseguenza, i confini della responsabilità penale colposa del medico:
“L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:
a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;
b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;                                                                d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico”.

Sulla base di tali principi, poi seguiti con costanza dalla successiva giurisprudenza, si deve valutare la possibilità di applicare l’art. 590 sexies c.p. al caso di cui si discute, cioè del sanitario che sia chiamato ad una scelta di cura alternativa tra più soggetti, nel momento in cui non vi siano risorse sufficienti per la cura di tutti.

Inoltre, bisogna capire che valore abbiano le regole di triage all’interno della valutazione della causa di non punibilità di cui al comma 2 dell’art. 590 sexies c.p.. Queste ultime, infatti, non sono state codificate all’interno del nostro ordinamento alla stregua di linee – guida, come sarebbe richiesto dalla “Gelli – Bianco”. Tuttavia, derivano dal sapere tecnico consolidato della comunità scientifica e da un insieme di atti giuridici di varia natura che sono intervenuti sulla materia dell’attività sanitaria emergenziale [21].

Ciononostante, allo stato non esistono linee-guida propriamente dette, né buone pratiche clinico assistenziali che siano state formulate e costruite in relazione alla specifica emergenza Covid-19, che forniscano all’operatore medico la certezza di operare nell’alveo di un terreno “battuto”, guidato dalla presenza di norme sicuramente aderenti ai singoli casi che si pongono costantemente di fronte a lui nell’azione quotidiana.

D’altro canto, l’applicazione corretta da parte dei sanitari di tali “linee-guida” non codificate, vista la rapida modificazione del quadro di gestione dell’emergenza, potrebbe costituire un valido confine su cui fondare, a seguito del necessario accertamento, la valutazione di irresponsabilità penale dell’operatore.

Tuttavia, il medesimo ragionamento non può estendersi alle raccomandazioni elaborate dalla SIAARTI (o, perlomeno, ad alcuni dei criteri tracciati, quale quello relativo all’introduzione di un limite di età per l’accesso in T.I.) che non solo non sono state codificate (e non fanno quindi parte del Sistema nazionale per le linee guida), ma provengono da un’associazione tecnico – scientifica di una professione sanitaria, che non può dirsi espressione della “comunità scientifica” tout court.

Al contrario, il dibattito emerso in seno alla medesima comunità è indice della opinabilità e, di conseguenza, dell’inapplicabilità delle stesse ai sensi dell’art. 590 sexies c.p..

2.2. Scelte inevitabili e conflitto di doveri.

E allora, quid iuris nell’ipotesi in cui il medico venga posto di fronte alla decisione – a causa delle risorse scarse – di curare un solo di due pazienti che richiedano contestualmente il medesimo trattamento sanitario, quale ad esempio la ventilazione assistita?

Come si è ampiamente considerato, talvolta nemmeno la più osservante applicazione delle regole di triage consente di risolvere quello che viene definito un “conflitto di doveri”.

Inoltre, la normativa vigente non tiene conto nemmeno della condizione soggettiva dell’operatore, aggravata proprio dalla scarsità di risorse: la situazione di emergenza comporta una maggiore difficoltà per il medico nello svolgimento delle proprie attività, impegno e sollecitazioni fuori dall’ordinario, accompagnati da gradi più elevati di stress e stanchezza, da cui possono derivare anche una minore lucidità e quindi, un maggior rischio di errore. Di conseguenza l’esclusione della punibilità per la sola imperizia (lieve) potrebbe rivelarsi non adeguata al fine di valutare la condotta del medico in tali condizioni.

Tuttavia, non si può escludere che – in costanza del caso limite succitato – a venir meno possa essere la stessa antigiuridicità della condotta del medico: è possibile ipotizzare la sussistenza di un coefficiente psicologico (doloso o colposo) in una condizione di mancanza di alternative? Se è vero che ad impossibilia nemo tenetur, il medico che abbia di fronte la scelta tra due situazioni alternative di pari gravità verserebbe in una condizione di inesigibilità di una condotta alternativa, a prescindere dalla scelta operata.

Tra le sentenze che hanno seguito la pronuncia citata delle Sezioni Unite, ad esempio, vi è la cd. sentenza “De Renzo” (Cass., Sez. IV, 6 agosto 2018, n. 37794). Secondo quest’ultima l’opera del giudice non dovrebbe limitarsi ad una analisi della condotta del sanitario e della sua rilevanza penale, ma dovrebbe estendersi ad “un’indagine che tenga conto dei medesimi parametri allorché si accerti quello che sarebbe stato il comportamento alternativo corretto che ci si doveva attendere dal professionista, in funzione dell’analisi controfattuale della riferibilità causale alla sua condotta dell’evento lesivo.”

Pertanto – nei casi limite, privi di riferibilità ad una guida di principio che conforti il medico in azione sul campo – più che valutare una applicabilità dell’art. 590 sexies c.p., potrebbe essere più pertinente orientare il ragionamento nel senso della possibile assenza di antigiuridicità della condotta dell’operatore chiamato alla scelta. In particolare, l’esclusione di responsabilità penale in capo al sanitario potrebbe derivare dall’impossibilità in concreto di evitare di cagionare l’evento lesivo o mortale, a causa della scarsità di risorse che consente inevitabilmente di prestare le adeguate cure ad alcuni pazienti e a negarle ad altri, in condizioni cliniche simili.

La causa di giustificazione che potrebbe scriminare la condotta fin qui esaminata è lo stato di necessità ex art. 54 c.p., per il quale “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. L’applicazione della scriminante potrebbe conseguire ad un conflitto di doveri di fronte al quale venga posto il sanitario che sia destinatario dell’obbligo di prestare assistenza a due pazienti, ma ne possa curare solo uno. Avrebbe in questo caso prevalenza l’obbligo considerato prevalente alla stregua dell’ordinamento vigente.

Secondo la Cassazione, “per cogliere l’indicata collocazione gerarchica occorre, evidentemente, ponderare i diversi obblighi alla luce delle contingenze del caso concreto. Gli indicatori più significativi sono costituiti dai beni giuridici e dagli interessi personali che gli obblighi cautelano, nonchè dalla prossimità degli obblighi stessi rispetto ai beni. Una ponderazione che, naturalmente, può presentare diversi gradi di difficoltà, dovendosi focalizzare sulle specificità proprie di ciascuna vicenda, che possono proporre irripetibili particolarità difficilmente catalogabili a priori.” (Cass., Sez. IV, 15 aprile 2009, n. 15869).

In questo caso, trovandoci di fronte a due situazioni portatrici del medesimo obbligo, quello di prestare le cure per scongiurare l’esito del paziente, secondo le modalità stabilite dall’ordinamento, sarebbero queste ultime modalità a determinare la prevalenza. Come abbiamo visto, i principi rinvenuti dalla giurisprudenza imporrebbero al sanitario di valutare l’evoluzione del caso concreto e di scegliere ed applicare le linee guida, le raccomandazioni e le ultime acquisizioni scientifiche.

Di conseguenza, il medico che abbia correttamente applicato le stesse avrebbe adempiuto al dovere prevalente e, pertanto, la condotta da questi tenuta sarebbe scriminata. A tal proposito, è interessante richiamare una pronuncia della giurisprudenza di legittimità in materia di conflitto di doveri del medico. Infatti, la valutazione in concreto della scelta corretta, in presenza di due doveri confliggenti di pari rango, è particolarmente complessa per il giudice quando “egli deve valutare la condotta tenuta dal medico che si sia imbattuto in un caso eccezionale che gli abbia imposto la soluzione di problemi di particolare difficoltà per la dubbiosità della situazione, quanto a diagnosi, a terapie, ad azione d’intervento, in relazione alle quali la dottrina e, ovvero o, l’esperienza non diano indicazioni, o ne diano di non univoche, lasciando l’operatore solo con il dilemma di scegliere la soluzione giusta che poi, quale che sia quella adottata, ove risulti improduttiva di esiti favorevoli, finisce con costituire fonte di addebito, spesso solo perché l’altra (soluzione) non è stata sperimentata e non se ne sono potuti verificare gli effetti” (Cass., Sez. IV, 11 febbraio 1998, n. 1693).

Ed infatti, nel caso presente, è impossibile stabilire ex post se la decisione del medico di salvare chi abbia maggiore possibilità di vivere sia stata in concreto corretta. La soluzione proposta dalla citata pronuncia consiste nel consentire al giudice di adottare la norma di cui all’art. 2236 c.c. [22] come parametro legale o come massima di esperienza, per valutare la condotta tenuta dal medico. Ed in tal senso riconoscere la particolarità della “soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, nel valutare quale sia il dovere effettivamente prevalente tra due che si presentano come pari tra di loro, in assenza di un precetto normativo che stabilisca chiaramente la condotta da seguire.

2.3. Limitazione della responsabilità penale: serve un intervento legislativo?

Vista la particolare difficoltà nel rinvenire una norma di facile applicazione all’interno dell’ordinamento, al fine di tutelare la difficile posizione del medico nell’emergenza Covid-19, ci si potrebbe attendere un intervento in tal senso da parte del legislatore.

Al momento sono stati presentati diversi emendamenti in Senato al d.l. 17 marzo 2020, n.18, il c.d. “Cura Italia”, per quanto riguarda la responsabilità penale del sanitario durante l’emergenza Covid-19. È d’obbligo sottolineare che nessuno di questi è confluito all’interno del disegno di legge approvato il 09 aprile 2020 e trasmesso alla Camera, per cui possiamo immaginare che il dibattito sul tema si sposterà eventualmente in tale sede e lì possa trovare soluzione.

Leggendo le ultime proposte legislative, appare evidente quali siano state le principali preoccupazioni del legislatore fino a questo momento. In primis, vi è la comune scelta di limitare la responsabilità penale del sanitario solo ai casi più gravi, utilizzando come parametro di valutazione prevalentemente la sussistenza della colpa grave. Quest’ultima verrebbe valutata tenendo in considerazione la proporzione tra le risorse messe a disposizione dell’agente ed il numero dei pazienti bisognosi di intervento, nonché la possibilità che la specializzazione del sanitario non sia quella normalmente richiesta per la tipologia di intervento. Dall’altro lato vi è la volontà di determinare quali siano i parametri per individuare la colpa grave. Certamente, il filo conduttore degli emendamenti è l’utilizzo di espressioni riferite alle violazioni come “palese, ingiustificata, macroscopica, intenzionale”, che rendono evidente la volontà di introdurre una causa di non punibilità molto ampia, ma che, a volte, rischia di essere eccessiva.

In alcuni, ad esempio, si fa riferimento alla “palese ed ingiustificata violazione dei principi basilari” delle professioni sanitarie, creando una copertura nei confronti della condotta del sanitario molto ampia. In altri, si parla di attività “rese con mezzi e secondo modalità non sempre conformi”, senza che sia chiaro se ciò significhi che i mezzi e le modalità potrebbero essere non conformi per la quasi totalità dell’attività svolta. Se così fosse, nonostante la situazione di emergenza, ci troveremmo di fronte ad un contrasto con l’art. 32 della Costituzione, data l’eccessiva ampiezza.

Ciò che preoccupa è che negli emendamenti fin qui proposti viene esclusa la punibilità del sanitario che, con colpa lieve, ignora o segue solo in minima parte le linee guida, le raccomandazioni o le migliori pratiche, lasciando a quest’ultimo la possibilità di avvalersi dei soli principi basilari della propria professione.

In altre parole, in nessuna delle proposte il legislatore dimostra di voler indicare un comportamento corretto da seguire in condizioni di speciale difficoltà nel compiere scelte conseguenti ad una carenza di risorse. Al contrario, preferisce la via della non punibilità di tutte le condotte che non siano connotate da colpa grave, rendendo in alcuni casi particolarmente ristretta la possibilità di versare in tale ipotesi.

Il quadro delle norme attualmente vigenti si pone come poco idoneo per collocare correttamente la posizione del medico descritta. L’ordinamento non prevede una tutela chiara ed univoca nei confronti di chi si trovi ad operare in condizioni di difficoltà se non addirittura di impossibilità. Di conseguenza, sarebbe necessario un intervento normativo che sia capace, se non di indicare il comportamento corretto da tenere per il medico (sempre dipendente innanzitutto dal caso pratico), almeno di tutelarlo da un’ingiusta ricaduta in termini di responsabilità penale.

Pertanto, un intervento normativo efficace dovrebbe essere portato avanti tenendo conto innanzitutto delle concrete problematiche per i sanitari chiamati ad operare in una situazione eccezionale e solo per quanto riguarda, quindi, quelle derivanti dalla medesima emergenza.

E ciò appare ancor più necessario nella situazione attuale, dove l’impossibilità di operare al meglio per tutti non è solo conseguenza di una inattesa pandemia, ma anche diretto effetto di precedenti politiche sanitarie di macro-allocazione e di gestione macro-organizzativa, carenti, miopi e talvolta clientelari. In tal senso, appaiono inaccettabili le scelte di “esonero” di responsabilità tout court anche a questi livelli, che renderebbero il Covid-19 non una legittima esimente per il medico, ma un alibi per altri.

Prof. Avv. Roberto De Vita

Avv. Antonio Laudisa

Dr. Marco Della Bruna

 

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Immagine: Rembrandt, “Lezione di anatomia del dottor Tulp“, 1632.
Riferimenti

 

[1] https://www.consiglionazionaleforense.it/web/cnf-news/-/687342
[2] https://www.siaarti.it/SiteAssets/News/COVID19%20-%20documenti%20SIAARTI/SIAARTI%20-%20Covid19%20-%20Raccomandazioni%20di%20etica%20clinica.pdf
[3] https://portale.fnomceo.it/anelli-fnomceo-su-documento-siaarti-nostra-guida-resta-il-codice-deontologico/
Qui la dichiarazione del Prof. Anelli, Presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCEO), che così conclude il suo intervento: “L’unico metro di giudizio della Professione restano i principi della Costituzione, del Codice di Deontologia, del Servizio sanitario nazionale. L’applicazione di criteri di razionamento è l’estrema ratio e richiede una discussione bioetica collegiale interna alla professione e che pervada l’intera società.”
[4] Per un approfondimento sul tema, “L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative”, C. Di Costanzo, V. Zagrebelsky, 15.03.2020, biodiritto.org
[5] Ut supra.
[6] “Covid-19: Criteri Etici”, L. D’Avack, 23.03.2020, biodiritto.org
[7] Utilizzato dal National Institute for Health and Care Excellence (NICE) britannico per stabilire quali siano i trattamenti erogabili dal sistema sanitario e quali no.
[8] “La pandemia e il dilemma per l’etica quando le risorse sono limitate: chi curare?”, L. Palazzani, 22.03.2020, biodiritto.org
[9] “L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative”, C. Di Costanzo, V. Zagrebelsky, 15.03.2020, biodiritto.org, in cui si dice: “Nel contesto della Costituzione non scritta inglese, ad esempio, non è possibile parlare di diritto fondamentale alla salute ma più precisamente di doveri che le amministrazioni sanitarie hanno sulla base delle risorse finanziarie stanziate. In questo sistema vengono impiegati i criteri della massima utilità, derivanti dalla combinazione dell’adozione di un modello etico utilitarista con la previsione di tutele che distinguono il loro grado di effettività sulla base del contenuto degli obblighi posti a carico delle amministrazioni sanitarie competenti”.
[10] “Ethical principles concerning proportionality of critical care during the 2020 COVID-19 pandemic in Belgium: advice” (2020).
[11] C.S.B.,“Risposta alla richiesta di parere urgente su aspetti etici legati all’uso della ventilazione assistita in pazienti di ogni età con gravi disabilità in relazione alla pandemia di Covid-19”, 16.03.2020.
[12] I.B.C. e C.O.M.E.S.T., “Statement on Covid-19: Ethical Consideration from a global perspective”, 6.04.2020.
[13] “La pandemia e il dilemma per l’etica quando le risorse sono limitate: chi curare?”, L. Palazzani, 22.03.2020, biodiritto.org.
[14] “Covid-19: Criteri Etici”, L. D’Avack, 23.03.2020, biodiritto.org
[15] “Siamo consapevoli che affrontare questo tema può essere moralmente ed emotivamente difficile. Come Società Scientifica avremmo potuto (tacendo) affidare tutto al buon senso, alla sensibilità e all’esperienza del singolo AR, oppure tentare – come abbiamo scelto di fare – di illuminarne il processo decisionale con questo piccolo supporto che potrebbe contribuire a ridurne l’ansia, lo stress e soprattutto il senso di solitudine. Oltre a rappresentare per il paziente una tutela in termini di limitazione dell’arbitrarietà delle scelte del team curante.”
[16] “La pandemia e il dilemma per l’etica quando le risorse sono limitate: chi curare?”, L. Palazzani, 22.03.2020, biodiritto.org
[17] Per un approfondimento sul tema, “Risposta all’emergenza sanitaria e triage. Appunti per una lettura penalistica”, G. Battarino, 26.03.2020, questionegiustizia.it
[18] Ut supra.
[19] Tale norma è stata introdotta all’interno del Codice con l’art. 6, comma 1 della legge 8 marzo 2017, n. 24, nota anche come Legge “Gelli – Bianco”. L’intervento normativo era volto a sostituire la previgente normativa abrogata, contenuta all’interno dell’art. 3 del c.d. decreto “Balduzzi” (d.l. 13 settembre 2012, n.158, convertito in legge 8 novembre 2012, n.189).
[20] F. Gelli, Prefazione, in Lovo – Nocco (a cura di), “La nuova responsabilità sanitaria. Le novità introdotte dalla Legge Gelli”, Milano, 2017, pp. 4-5.
[21] “Risposta all’emergenza sanitaria e triage. Appunti per una lettura penalistica”, G. Battarino, cit.
[22] L’articolo, rubricato “Responsabilità del prestatore d’opera”, così dispone: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

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