
23 Set Violenza sessuale via Whatsapp: Nota a Cassazione Penale, Sez. III, 8.9.2020, n. 25266
Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha ritenuto che il delitto di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis c.p., possa configurarsi nel caso di condotte poste in essere anche solo mediante chat, nel caso di specie Whatsapp, pur in assenza quindi di qualsiasi contatto fisico, ogni qualvolta venga comunque coinvolta la sfera psichica sessuale della persona offesa e sia in concreto lesa la sua libertà individuale. Un nuovo indirizzo interpretativo che consente di ritenere configurabile la violenza sessuale in molti casi di c.d. sextortion.
Il caso
La sentenza trae origine dalla vicenda di un giovane di trentadue anni, sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per aver inviato una serie di messaggi Whatsapp allusivi e sessualmente espliciti ad una ragazza minorenne, costringendola a scattarsi e ad inoltrargli una foto che la ritraesse con il seno nudo, nonché a ricevere una foto del suo pene e a commentarla, sotto la minaccia della pubblicazione su Instagram e su siti pornografici della conversazione tra i due intercorsa.
La misura cautelare era stata confermata dal Tribunale del Riesame di Milano, con ordinanza del 9 gennaio 2020, avverso la quale l’indagato proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo che, in assenza di un vero e proprio atto sessuale, la fattispecie concreta non potesse essere ricondotta nell’alveo della condotta astratta prevista dall’art. 609-bis c.p. Egli, infatti, pur ammettendo di aver intrattenuto la conversazione, sottolineava come non vi fosse stata da parte sua alcuna proposta di incontro volto a soddisfare le proprie pulsioni sessuali (che avrebbe potuto integrare la fattispecie, almeno nella forma del tentativo) né, tantomeno, una induzione al compimento di atti di autoerotismo o altre pratiche sessuali via chat. Nella prospettiva del ricorrente, dunque, la condotta poteva, al più, configurare il meno grave reato di adescamento di minorenne di cui all’art. 609-undecies c.p..
La fattispecie
Al fine di comprendere le ragioni che hanno indotto la Corte a ritenere configurabile nel caso di specie il delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p., e non quello assai meno grave di adescamento di minorenne di cui all’art. 609-undecies c.p., appare necessario ripercorrere brevemente le due fattispecie.
Il reato di adescamento di minorenne punisce la condotta di chi compia qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce, anche se posti in essere mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione, allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter e 600-quater c.p. (schiavitù, prostituzione e pornografia minorile, detenzione di materiale pedopornografico).
Si tratta all’evidenza di un reato c.d. di pericolo indiretto, in quanto il legislatore ha inteso anticipare la soglia della punibilità alla condotta di adescamento del minore, che rappresenta invero un comportamento prodromico al compimento dei più gravi reati indicati dalla norma, e che ne costituiscono, pertanto, il dolo specifico.
In altre parole, laddove l’adescamento (inteso come artifici, lusinghe o minacce volte a carpire la fiducia del minore) non sia poi concretamente seguito dalla commissione dei reati fine indicati e neppure siano stati compiuti atti diretti in modo non equivoco alla realizzazione degli stessi (che integrerebbero la specifica fattispecie nella forma tentata), l’agente sarà punito a norma dell’art. 609-undecies c.p..
La natura preparatoria dell’adescamento rispetto ad altri delitti che vedono coinvolto il minore, da cui origina la clausola di riserva espressa contenuta nella norma (se il fatto non costituisce più grave reato), ne comporta, invece, l’assorbimento ogni qualvolta debba ritenersi integrata la fattispecie più grave.
Per quanto riguarda, invece, la violenza sessuale, l’art. 609-bis c.p. punisce la condotta di chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringa taluno a compiere o subire atti sessuali, nonché quella di chi induca taluno a compiere o subire detti atti abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, ovvero traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Il bene giuridico tutelato dalla norma consiste nella sfera di libera autodeterminazione che l’ordinamento assicura ad ogni individuo nell’ambito della propria intimità sessuale.
In tale prospettiva, ben si comprende perché la Corte abbia ritenuto che il contatto fisico non sia indispensabile al fine di ritenere configurabile il suddetto delitto; la libertà sessuale della vittima ben può – come molto spesso avviene – essere lesa da comportamenti che prescindano addirittura dalla compresenza con l’autore del fatto.
Ritenendo perfettamente valida l’argomentazione del Tribunale del riesame, la Corte ha sottolineato come la violenza sessuale fosse da ritenersi pienamente integrata “pur in assenza di contatto fisico con la vittima, quando gli atti sessuali coinvolgessero la corporeità sessuale della persona offesa e fossero finalizzati e idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale nella prospettiva di soddisfare o eccitare il proprio istinto sessuale”.
Alla luce di siffatta ricostruzione, dunque, non vi è dubbio che la condotta posta in essere dall’indagato nel caso di specie fosse in concreto idonea a coartare la volontà della vittima e a ledere la libertà di autodeterminarsi dell’ambito della propria sfera sessuale, integrando così il delitto di violenza sessuale e non meramente quello di adescamento di minorenne, come invece sostenuto dal ricorrente.
I Giudici hanno, inoltre, ribadito i principi espressi dalla giurisprudenza formatasi nel tempo in ordine al reato di violenza sessuale, da tempo riconosciuto sussistente anche nelle ipotesi di comunicazione a distanza, “non rilevando l’assenza di qualsivoglia approccio fisico” [1] neppure “ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di minore gravità” [2].
Il commento
L’importante ed assai apprezzabile conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione non risulta affatto scontata se si considera che di recente si sono registrate opinabili decisioni di merito di indirizzo difforme. Uno dei casi più eclatanti è stato quello accaduto a Torino nel 2017 [3], riportato finanche dalla stampa nazionale, e riguardante una ragazza che, viaggiando su un autobus, si era ritrovata addosso del liquido seminale. Le telecamere del mezzo di trasporto avevano infatti ripreso un uomo che, situato dietro di lei, si era masturbato e le aveva eiaculato sui pantaloni. Tuttavia – secondo quanto riportato – nonostante l’evidente gravità del comportamento, il G.I.P. di Torino aveva deciso di non accogliere la richiesta di misura cautelare avanzata dal PM nei confronti dell’uomo, in quanto dal racconto della ragazza non emergeva alcun indizio che rivelasse uno sfregamento tra i due corpi. In assenza di contatto fisico, secondo il magistrato, il comportamento non poteva essere qualificato come violenza sessuale, ma solo come atto osceno, fattispecie di reato parzialmente depenalizzata dal D. Lgs. 5 gennaio 2016, n. 8.
D’altronde una siffatta interpretazione non stupisce se si pensa che, fino a non molto tempo fa, il nostro ordinamento considerava ancora il delitto di violenza sessuale come un reato contro la moralità pubblica e il buon costume; solo con la L. n. 66/1996, infatti, lo stesso è stato qualificato come un delitto contro la libertà personale.
Deve, pertanto, riconoscersi alla sentenza in commento il pregio di inserirsi nel miglior spirito della norma, posta a protezione anche della sfera psichica della libertà sessuale e non solo di quella fisica in senso stretto, e di attribuire rilevanza al mutamento digitale delle relazioni interpersonali.
La visione secondo la quale la libertà sessuale di un individuo necessiti di un contatto fisico per essere compromessa appare ormai anacronistica e rischia di lasciare privi di effettiva tutela da condotte che, sebbene molto gravi, siano oggetto di letture restrittive date a norme anche di recente introduzione e di ampio respiro, attraverso quella che viene definita la lettura della norma nuova con le lenti vecchie.
Un esempio immediato è ricavabile dallo stesso caso in commento, in relazione alla c.d. sextortion, ovvero tutte quelle condotte estorsive perpetrate attraverso la rete e caratterizzate dalla minaccia di diffondere immagini o video sessualmente espliciti che ritraggono la vittima, al fine di ottenere qualcosa da quest’ultima. Sebbene il fenomeno sia particolarmente grave ed allarmante, sempre più diffuso e con crescente attenzione dell’opinione pubblica e dei commentatori [4], risulta (solo) apparentemente “scoperto” dal punto di vista normativo, non essendovi nel nostro ordinamento una specifica fattispecie di reato, né potendo questa particolare condotta estorsiva – laddove non rappresenti il momento prodromico o la conseguenza di altro reato – rientrare appieno nell’estorsione ex art. 629 c.p. o nella ipotesi di recentissima introduzione di cui all’art. 612 ter c.p. in tema di c.d. revenge porn). Tuttavia, con la sentenza in commento, la Suprema Corte apre un importante varco nella possibilità di ricomprendere (attraverso una corretta e condivisibile ermeneusi estensiva) la sextortion all’interno della fattispecie di violenza sessuale di cui all’art 609 bis cp, laddove – come nel caso di specie – le condotte turbative della sfera psichica sessuale della persona offesa si siano sostanziate anche in una coartazione della libertà di autodeterminazione sessuale della stessa.
Avv. Valentina Guerrisi
Dr.ssa Asia Vozzella
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Riferimenti:
[1] Cass. Sez. 3, n. 8453 del 14.06.1994 e Cass. Sez. 3 n. 12987 del 3.12.2008, citate nella sentenza in commento.
[2] Cass. Sez. 3, n. 19033 del 26.03.2013, cit..
[4] Sul tema specifico si veda “Sextortion: più in rete, più nella rete. L’aumento esponenziale delle vittime” – https://www.devita.law/sextortion-piu-in-rete-piu-nella-rete-laumento-esponenziale-delle-vittime/