DEVITALAW Rassegna Stampa

Intervista a Ranieri Guerra: “Mi aspettavo la difesa di Oms e Speranza. Sileri sapeva”

Leggi l’articolo originale su HuffPost
di Stefano Baldolini

Il direttore vicario all’HuffPost nel giorno del Global Health Summit di Roma: “L’Oms prigioniera di interessi di parrocchia va depoliticizzata, ma Tedros va riconfermato”

Si aspettava la difesa del suo ministro Speranza e della sua Organizzazione mondiale della sanità, Ranieri Guerra, l’inviato speciale per l’emergenza Covid in Italia, attualmente direttore vicario dell’agenzia delle Nazioni Unite, di cui chiede – in un’intervista all’HuffPost nel giorno del Global Health Summit di Roma- una riforma necessaria e una depoliticizzazione. E lancia un’accusa al viceministro Sileri.

Ranieri Guerra, dopo mesi di silenzio mentre continuavano le polemiche legate al mancato piano pandemico sollevato dal caso Zambon, ha deciso di tornare a parlare. Perché proprio adesso? 

I motivi sono tre: il primo è rispondere ad una campagna di denigrazione che stava diventando sempre più violenta, e a cui mi sarei aspettato fossero la mia Organizzazione (l’OMS) e il Ministero presso cui avevo prestato servizio, a fornire gli elementi fattuali necessari per ristabilire la verità. Ciò non è ancora avvenuto quindi, oltre alla relazione dei fatti richiesta dall’OMS nell’ambito delle valutazioni disciplinari nei confronti dei comportamenti e delle mistificazioni di Zambon, quando ho saputo di essere indagato ho esercitato il mio diritto alla difesa sia in sede giudiziaria che rispetto al linciaggio mediatico: non solo ho reso la mia versione dei fatti, ma ho offerto le comunicazioni e le evidenze documentali che rappresentano la verità di quello che è accaduto; poi per quanto riguarda le ragioni dei comportamenti e delle dichiarazioni di Zambon ancora non so, ma di certo quando saranno disponibili le ulteriori mail e documenti riusciremo a comprendere.

Il secondo motivo?

Il secondo è stato determinato dall’uscita di un libro profondamente calunnioso (Il pesce piccolo, F. Zambon Feltrinelli, ndr), che manipola in maniera grossolana i fatti, eludendo ogni richiamo alla verità e alle circostanze documentate, evitando subdolamente il confronto rispetto alle moltissime contraddizioni che ho rilevato, raccontando una storia improbabile, narrata nel comodo isolamento del proprio domicilio, offendendo chi ha lavorato e lavora in prima linea, strizzando l’occhio, nel tema e nel linguaggio, a certa parte che persiste nel non voler leggere gli elementi fattuali e ora pubblici, che il mio avvocato Roberto De Vita ha depositato presso la Procura di Bergamo. Ma c’è un terzo motivo, il più importante.

Prego.

E’ un obbligo morale nei confronti delle persone, spesso toccate direttamente dagli effetti dalla pandemia, che sono state condotte per mano mediatica sapiente ad una lettura travisata e interessata dei fatti, con scopi che mi auguro possano diventare chiari a tutti: quello che è successo è diverso da quanto Zambon racconta in modo superficiale e con toni quasi divertiti, molto più complesso e articolato: un intero Paese che soffre e che piange, ma che ha reagito alla catastrofe così potentemente rispetto a tutti gli altri colpiti duramente e in maniera analoga, merita rispetto, merita verità e merita amore, soprattutto dai propri figli. Zambon ha profondamente ferito il proprio Paese mistificando i fatti, ha denigrato la propria organizzazione ed i colleghi, in un crescendo rossiniano narcisistico ormai non più tollerabile.

Lei in questi giorni si è difeso su Repubblica, negando l’ok dell’Oms al rapporto Zambon. Sostiene dunque che il ricercatore ha pubblicato il report – poi rimosso – senza avere l’approvazione dell’ufficio legale di Ginevra?

Non lo sostengo io, ma lo dimostrano le mail depositate in Procura e che anche voi potete direttamente verificare, così come lo dimostrano gli accertamenti svolti dall’OMS: chi ha pubblicato senza le autorizzazioni richieste è Zambon, chi ha tolto dal sito il rapporto è Zambon, chi non ha ripubblicato è Kluge (il direttore regionale OMS, ndr) con Zambon; io con tutti e tre questi passaggi non ho nulla a che fare e i documenti ufficiali e le mail lo dimostrano a chi solo voglia leggerli. Ricordiamoci che fino a poco tempo fa lui sosteneva che fossi stato io a ritirare il rapporto, cambiando poi versione in corsa, perché non più sostenibile.

Ma ritiene possibile il comportamento di Zambon, non era sufficiente l’approvazione della Chief Scientist di Ginevra? O, che lei sappia, non è arrivata neanche quella? 

Il percorso autorizzativo è una macchina complessa e passa attraverso vari livelli. Chi ha deciso di ignorarlo, pur conoscendolo molto bene, evidentemente aveva degli interessi precisi per andare alla pubblicazione il giorno 11 maggio (seguito poi nella stessa serata da una puntata di Report di attacco all’OMS). Non so nulla dell’autorizzazione della Chief Scientist, che tuttavia è stata confermata molte volte dallo stesso Zambon. Io ho evidenza solo della mail dell’11 maggio con la quale la dr.ssa Swaminathan mi chiedeva di controllare i dati del report (anch’essa depositata in Procura dall’avv. Roberto De Vita).

Lei ha dichiarato sempre a Repubblica che “voleva aggiornare il piano pandemico ma non c’era copertura finanziaria”. Insomma non si sente di assumersi proprio nessuna responsabilità nella vicenda?

Quale vicenda? Quella legata alla presunta sciatteria invocata da un Viceministro (Pieropaolo Sileri, ndr) che dal 15 aprile era stato informato di tutto dal collega Francesco Maraglino del suo stesso ministero, con una mail dettagliata e circostanziata che parlava – tra l’altro – del piano anti-COVID e del Piano Nazionale di Difesa? Oppure quella legata al mio stato di servizio in Italia, con gli oltre venti piani nazionali redatti, che ho avuto modo di raccontare in uno scritto rilasciato ad Affari Italiani? Oppure al rapporto subordinato tra tecnici e politici da qualcuno evocato, quando perfino il mio successore, dott. D’Amario, afferma di avere riproposto la mia indicazione di rinnovo del piano al suo Ministro dell’epoca, Grillo (quando Sileri era presidente della Commissione Sanità del Senato), che decise di non farne nulla? Oppure alla decisione del Ministro Speranza di non attivare il piano vigente (quello del 2006) per procedere con il nuovo piano anti-COVID, allora segretato, ma confermato negli eloquenti verbali del CTS di febbraio e marzo 2020? Qualcuno ha parlato di atti amministrativi e non politici, ma forse bisogna rileggere attentamente la questione, anche questa volta alla luce dei fatti, che parlano di direttive OMS e Europee della fine del 2017, del 2018 e del 2019, oltre che una fondamentale legge del gennaio 2018, che identifica la Protezione Civile come titolare di molte delle alte funzioni di coordinamento della preparazione, contenimento e mitigazione epidemiche. Se anche ci fosse stato un piano diverso nel 2016, si sarebbe dovuto cambiare in corsa entro fine 2018 in ogni caso.

Al di là dei profili penali e politici della vicenda, non crede che forse avrebbe dovuto fare di più – una volta all’Oms – per pressare le istituzioni italiane sull’aggiornamento del piano pandemico? In fondo era la persona più adatta a farlo.

Lei mi chiede se non avessi potuto fare di più: io non ero negli uffici storici monumentali di Venezia a inizio epidemia, ero distaccato in Repubblica Democratica del Congo – non il Paese più facile del mondo – quando venni richiamato per essere destinato all’Italia e non mi sottrassi, per amore del mio Paese e per spirito di servizio. Cominciai a parlare col Ministro e coi colleghi del CTS (e dal CTS non venni messo al corrente di quanto realizzato fino all’11 marzo, date le misure di segretazione decise) e di altre amministrazioni fin da subito, fornendo immediatamente idee e proposte migliorative del sistema di reazione messo in piedi nel Paese. Consigliai anche al Ministro di centralizzare subito tutte le funzioni di sanità pubblica, creando una sorta di ‘Public Health Italy’, in analogia a quanto fatto in Gran Bretagna e in Francia, rimediando in corsa alla frammentarietà del sistema regionale. Se poi le cose non sono andate nel verso giusto in alcune località del nord dell’Italia, dato il sistema, appunto, decentrato di gestione della sanità, forse bisogna fare domande e cercare risposte in quei territori; certamente abbiamo vissuto una situazione che ha colpito tutto il mondo occidentale nello stesso modo, e l’Italia intera, ricordiamolo, prima di tutti e isolata da tutti, costringendola a inventare soluzioni che poi gli altri avrebbero seguito. Ho voluto tenere finora una confidenzialità rispettosa, in attesa che altri chiarissero, ma vedo che la narrativa rimane ambigua e quindi va spiegata una volta per tutte.

Proviamo a fare un passo avanti, oggi venerdì 21 maggio a Roma, Global Health Summit. Ovviamente la salute mondiale è in cima all’agenda globale. 

Il summit, per la definizione della cui agenda ho avuto l’onore di collaborare con la precedente Presidenza italiana, mira a inserire la dimensione della sicurezza nell’ambito del sistema sanitario. Si tratta di un’evoluzione di quanto si ebbe modo di elaborare a seguito dell’iniziativa Global Health Security Agenda, a cui l’Italia aderì, su invito del Presidente Obama, fin dal 2014, operando anche in vari Paesi del mondo e collaborando alla redazione del Global Health Security Index del 2019, che anticipava molte delle conclusioni del recentissimo rapporto indipendente ‘COVID-19: Make it the Last Pandemic’.

Ne parleremo dopo. Tornando al summit, quale lezione ha appreso dalla pandemia?

Una lezione è determinata dal positivo rapporto costo-beneficio che l’investimento nella sicurezza e nella preparazione alle epidemie propone. A fronte di 4/5 miliardi di euro investiti annualmente nella preparazione, avremmo risparmiato molti degli oltre 30 trilioni di dollari che sono il costo stimato della pandemia su scala globale. Oltre a diverse vite umane, che non hanno prezzo. I meccanismi della solidarietà e della collaborazione tra Stati sono stati riesumati solo tardi nel contesto della fiammata epidemica iniziale, pur in presenza di meccanismi normati (sia a livello europeo che a livello globale) e apparentemente validi, ma attivati con estremo ritardo. La forte discrepanza tra azioni di sorveglianza relativamente tempestive, che hanno portato a un’identificazione abbastanza precoce di quanto stava accadendo, ma a cui è seguita l’inazione per due mesi (gennaio e febbraio, non solo febbraio), determinata da sottovalutazione, incapacità di investire rapidamente sulle azioni pre-pandemiche e, mi permetta di aggiungere, da una miope gestione della comunicazione del rischio e degli scenari che si sarebbero potuti aprire sia con gli operatori sanitari che con il pubblico: tutto ciò deve essere corretto nel futuro, dato che il cittadino deve potersi fidare delle proprie istituzioni, deve poter capire quali siano i contributi e i sacrifici che sono richiesti talvolta e per quali motivi.

Su quali punti sarà fondata la strategia globale sulla salute nei prossimi anni?

Sul superamento della fragilità di sistemi non costruiti su una prevenzione e su una sanità di base forti, finanziate, equipaggiate, vero fulcro del sistema sanitario, e non le cenerentole sacrificali a cui poter tagliare impunemente importanti proporzioni dell’investimento sanitario, allontanando il personale e ridestinandolo a scopi amministrativi o al segmento curativo del sistema. La forza di un ospedale è determinata dalla forza del sistema di base che gli sta attorno e lo alimenta, altrimenti non regge, e lo abbiamo visto con grande chiarezza. Telematica e intelligenza artificiale sono altri due elementi fondamentali, con tecnologie più che mature, che permetteranno di ridisegnare compiti, competenze e procedure, digitalizzando tutto, salvo il contatto umano e professionale con il cittadino, che mai come ora ha avuto modo di apprezzare le qualità del medico, dell’infermiere e di tutto il personale assistenziale che lo ha guidato come è stato possibile nella nebbia tempestosa della pandemia. Investire sul capitale umano è sempre fondamentale, ma nel caso della protezione della salute è vitale. E, infine, il valore della scienza e della ricerca, che ci stanno faticosamente illuminando il cammino con la speranza di aver finalmente vinto contro il nemico più subdolo del secolo. Su di esse vanno ricamate le procedure del costo dei farmaci e dei vaccini, che finalmente vengono considerati valori globali, che devono essere sottratti alla pura speculazione economico-finanziaria. La stessa trasparenza che si invoca per i governi deve essere richiesta anche al mondo industriale e produttivo, che, oltre alle straordinarie capacità tecniche e finanziarie che possiede, deve recuperare una dimensione etica di largo respiro, altrimenti si legittima la richiesta di sospendere la proprietà intellettuale e si entra in una zona di guerriglia legale che non fa bene a nessuno.

Il governo italiano ha recepito qualche sua indicazione come “inviato speciale del Direttore Generale OMS per l’emergenza COVID-19 in Italia”? 

Credo di si. Non ho parlato con nessuno del nuovo governo, dopo le decisioni del Presidente del Consiglio di cambiare l’assetto del CTS e dopo la violenta campagna denigratoria subita, che ha comprensibilmente fatto fare ai vertici scelte di relazione di cautela, e con cui non sono più in comunicazione da qualche settimana. Penso di avere a suo tempo contribuito sia all’interesse globale, circostanziando molti degli aspetti in discussione, anche se in modo confidenziale e, come sempre mi accade, senza la luce dei riflettori e senza chiedere riconoscimenti o cavalierati. Ma anche a suggerire quali possano essere gli interessi del Paese e della sua collocazione strategica in Europa, e rispetto ai paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, oltre a difendere il ruolo della mia Organizzazione nel contesto globale di cui si deve interessare, soprattutto per quanto riguarda le iniziative riassunte nel programma COVAX.

Qual è il tipo di contributo che l’Italia ha portato al Global Health Summit?

L’Italia ha un ruolo primario geopolitico e tecnico-scientifico da giocare, anche se la Germania ha anticipato la tempistica di creazione di un hub per le bio-emergenze, attivato con l’OMS a Berlino da qualche settimana. L’Italia è un grande Paese, pieno di creatività e risorse umane di primissimo livello che però deve imparare a investire in maniera strategica e politicamente rilevante rispetto alle importanti e qualche volta uniche potenzialità che possiede, ma è anche un Paese che subisce atti di autolesionismo da parte di alcuni suoi cittadini che, come nel caso di Zambon, oltre a danneggiare me, danneggiano tutti. Ricordo sempre i mille e più articoli scientifici con cui medici e ricercatori italiani hanno documentato l’epidemia nel nostro Paese dal suo inizio al momento della pubblicazione del rapporto dei colleghi di Venezia, i quali però non li hanno considerati. La visione italiana, oltre che tecnicamente inappuntabile, dovrebbe essere solidaristica e guidare gli altri in questa interpretazione: l’Italia è il Paese che più ha sofferto l’isolamento e lo stigma iniziale di cui era stata fatta oggetto anche dai partner europei. Ricordo le immagini potentissime del Papa, solitario e solidale in Piazza San Pietro, oltre alle immagini del lutto e della tragedia. L’Italia dovrebbe far tesoro di ciò e garantire al resto del mondo una visione più equa e partecipativa per i nuovi sistemi sanitari che emergeranno dalla pandemia. Mi riferisco anche al Medio-Oriente e all’Africa, dove la concretezza della collaborazione e la coscienza che stiamo tutti in un pianeta condiviso, di cui dobbiamo proteggere le risorse e la vita, sono ancora chimeriche. Le iniziative della planetary health che l’Italia aveva proposto innovativamente durante la sua presidenza del G7 nel 2017 sono sempre più attuali e l’Italia potrebbe continuare sulla strada allora intrapresa, anche nel suo ruolo di presidente di turno del G20.

Come giudica l’andamento della campagna di vaccinazione in Italia. C’è stato un effettivo cambio di passo dopo l’arrivo del tandem Draghi-Figliuolo?

I tassi di vaccinazione sono aumentati molto, sia per la migliore organizzazione che per la disponibilità delle dosi. Credo che la logistica delle nostre forze armate sia la migliore che si possa auspicare e come tale, sia stata giustamente attivata, anche per superare le disordinate gestioni localistiche: quello che impressiona di più è l’integrazione che si è riusciti ad avere tra una cabina di comando unica e un sistema di erogazione sempre decentrato, ma stavolta gestito in maniera solida e partecipata da tutti: questa non è una vetrina dove ci si mette in mostra a scapito di un altro. E’ uno scenario di responsabilità condivise, dove si vince o si perde tutti assieme.

I brevetti dei vaccini dovrebbero essere free come sostiene Biden, si sta facendo abbastanza per i Paesi più poveri? L’Oms ha gli strumenti per coordinare e in caso esercitare pressioni sui Paesi ‘troppo egoisti’, che bloccano l’esportazione di vaccini, dopo l’impatto del caso Covid, dovrebbe dotarsi di uno strumento ad hoc? 

Quelle legate ai brevetti sono questioni molto complesse. La ricerca scientifica del settore farmaceutico è quella che ci sta salvando la vita, è necessario bilanciare finanziamento alla ricerca e accessibilità ai farmaci, le soluzioni unilaterali o unidirezionali rischiano di non portare nel medio e lungo periodo i benefici attesi. Lo abbiamo già visto con la ricerca e lo sviluppo di antibiotici, molto ridimensionata, e non vorremmo rivederla per i vaccini. L’OMS non ha alcuno strumento se non quelli che gli stati membri decidono di concedere. Sta per iniziare l’Assemblea mondiale della sanità: vedremo nel concreto cosa, oltre alle grandi dichiarazioni di principio che sono sicuramente condivisibili, gli stati membri chiederanno all’OMS di fare e con quali mezzi. L’iniziativa COVAX è l’unica a livello mondiale che garantisca equità nella distribuzione e nell’accesso a diagnostica, terapie e vaccini per tutti, ma è finanziata solo per metà del fabbisogno. Saranno i governi capaci di capirne il valore etico, economico e sanitario? Se gli stati membri decideranno di dare all’OMS anche capacità cogenti sarà per me una sorpresa: si uscirebbe dal ruolo di ‘moral suasion’ per entrare in una dimensione di intervento inedita e di estremo interesse anche per la geopolitica sanitaria del futuro. Andremmo sicuramente incontro ad un mondo più equo.

Arriviamo alla riforma dell’OMS, se ne parla da anni. Per lei l’Oms va bene così?

Certamente non può andare bene così. Ma le armi sono spuntate. Se gli stati membri decidono qualcosa, l’OMS deve seguire quella linea. Si è tentato di proporre uno schema di azione, con un progetto di attività che l’Assemblea ha approvato, per poi finanziarne solo una parte, nel mondo pre-pandemico. Adesso è tutto da rivedere, ma rimango profondamente scettico, dato che alla fine emergono interessi di parrocchia che di fatto impediscono all’Organizzazione di esprimere tutto il proprio potenziale.

Ci sono delle criticità evidenti?

Criticità ce ne sono tante, una per tutte: la disomogeneità di visione talvolta tra un direttore generale eletto ed i sei direttori regionali (anch’essi eletti) che, di fatto, rispondono ai propri stati elettori, non al direttore generale, con cui talora competono. O ancora le territorialità e le gelosie interne all’Organizzazione e il fatto che la cultura istituzionale etica sia spesso dimenticata, come per esempio, ha fatto impunemente Zambon.

Dunque una riforma è necessaria?

La riforma è indispensabile, per esempio, per incentivare il lavoro sul campo, nei paesi, muovendo i talenti professionali fuori da Ginevra e dalle capitali regionali, per andare dove si gioca la grande partita della salute globale, e dove si salva veramente la vita di individui e comunità, non solo con la produzione di una linea guida (peraltro essenziale), ma con la sua applicazione nei teatri più difficili, quelli che io conosco meglio e dove ho speso la mia intera vita professionale.

Ne ha fatto qualche accenno prima, come giudica il recente rapporto ‘COVID-19: Make it the Last Pandemic’ commissionato dalla stessa Oms?  Il rapporto chiede una depoliticizzazione del reclutamento dei quadri alti. O il limite al mandato del dg o dei direttori regionali a sette anni. Sono richieste assurde? 

Sono tutte considerazioni che hanno un senso e che sono sicuramente giuste e documentate. Ci sono soluzioni proposte che sono drammaticamente diverse rispetto al passato e che – se adottate – metterebbero l’OMS in una condizione operativa rilevante e aggiornata. Il problema è che l’OMS non può riformarsi da sola. Deve essere l’Assemblea, e quindi gli stati membri, a deciderne l’assetto e il futuro. Depoliticizzare è sempre fondamentale per un organismo tecnico, dove i migliori dal punto di vista tecnico-scientifico dovrebbero essere reclutati, senza ingerenze da parte degli stati membri. Ma ci vogliono risorse finanziarie svincolate, con un aumento dei contributi obbligatori che garantiscano la vera indipendenza dell’ente, bisogna superare le problematicità del personale comandato in OMS da parte di amministrazioni statali di Paesi influenti, per poter reclutare autonomamente. Il mandato del direttore generale dovrebbe coincidere con quello dei direttori regionali: forse un diverso scadenzario e la non rieleggibilità potrebbero contribuire, ma solo in un quadro di riforma strutturale, altrimenti conterebbe poco e sarebbe un cambiamento di facciata. Altrettanto potrebbe contribuire stabilire un diverso percorso professionale del personale, spesso ancorato al corridoio di appartenenza e poco disposto a lavorare lontano da casa per periodi lunghi, rinunciando a stipendio, possibilità di carriera, interazioni sociali e formative privilegiate, come accade ora nelle capitali dell’Organizzazione. Questo dovrebbe essere cambiato e ci sono esempi eccellenti anche nell’ambito delle Nazioni Unite.

Sarebbe d’accordo con l’introduzione del potere investigativo dell’Oms?

Si, sono sicuramente d’accordo. La ‘moral suasion’ non basta quando si cerca di identificare un rischio globale per la salute di tutti. Deve esserci un’attribuzione di potere reale. Ma ancora di più serve la trasparenza, la condivisione della scienza e della ricerca, una banca biologica globale comune che dia a tutti la possibilità di studiare i patogeni con cui combattiamo. Questa poco nota iniziativa è stato proposta da Thailandia e Italia molto recentemente, anche con il mio intervento, e spero che si riesca a portare a compimento.

Si è parlato di scarsa trasparenza della Cina nella prima fase della pandemia, ma assunto che sia così, oggi ritiene che ci sia maggiore collaborazione con l’Oms? Non è che emergano molte notizie su possibili ondate di ritorno del virus o sulla campagna di vaccinazione. O quelle diffuse le ritenete sufficienti? 

La questione che riguarda la Cina è ovviamente complessa, come complesso è il sistema politico, istituzionale e sociale di un paese di quasi un miliardo e mezzo di abitanti. Io lo conosco abbastanza per esserci stato diverse volte a partire dal 1986, quattro aeroporti di Pechino fa, come dico sempre. E’ un paese straordinario, che è passato da situazioni talora medioevali all’approdo su Marte in poco più di trent’anni. La Cina ha bisogno della collaborazione culturale e intellettuale di tutti, non solo del decentramento manifatturiero favorito da una manodopera a basso costo. Sono convinto della possibilità di trovare forme di collaborazione e amicizia vere, al di là dei quesiti aperti dalla pandemia. Ricordiamoci cosa era successo ai tempi della SARS e come diversa è stata la gestione attuale. Anche qui, ci vuole tempo per sviluppare una semantica comune basata sulla fiducia, ma stiamo andando verso quella direzione. Io non ho rapporti diretti con i colleghi che gestiscono la relazione con la Cina sull’emergenza, ma mi sembra che ci sia un andamento positivo anche nella condivisione dei dati. Non dimentichiamoci che i ricercatori cinesi furono i primi a sequenziare il virus e a condividere tutto con il resto del mondo, assieme a una mole imponente di articoli scientifici che ci hanno dato le armi della conoscenza iniziale, purtroppo non totalmente recepita nei nostri Paesi.

Dopo la gestione del Covid, comunque controversa, l’attuale dg Tedros Ghebreyesus dovrebbe fare un passo indietro per il bene dell’OMS e non ricandidarsi o sarebbe un segnale di indebolimento dell’agenzia?

Non credo ci siano alternative credibili alla ricandidatura di Tedros. Ha fatto cose straordinarie, comunque, guidando l’Organizzazione in mari molto agitati e tenendo il timone in maniera perfettibile, ma non certo fallimentare, come qualcuno cerca di suggerire. Ha compiuto modifiche importanti, anche se preliminari e limitate da gradi di libertà non assoluti anche per il direttore generale. Ha resistito a Trump e, in misura non altrettanto visibile, a molti altri imperativi che avrebbero minato la credibilità dell’Organizzazione. Anche a casa sua ha sofferto molto, data la situazione drammatica del suo Paese: non ce lo dimentichiamo. Ha tenuto spesso un silenzio rigoroso e rispettoso di tutti. Ha cercato di fare – e secondo me ha fatto – il meglio possibile, secondo scienza e coscienza. Non ha certo bisogno della mia difesa, ma mi sento di dire che senza di lui sarebbe andata probabilmente peggio, come abbiamo visto per esempio con la gestione precedente dell’epidemia di Ebola in Africa occidentale. Tedros non si è mai negato: è stato sempre sul teatro delle operazioni, ha parlato con i potenti, ma anche con gli umili, con le persone che ha incontrato, e questo vuole dire molto. E’ sempre facile e anche giusto criticare, ma bisogna proporre delle alternative credibili, altrimenti la critica non serve a niente; come Zambon, che critica il piano italiano, ma, interrogato sul punto specifico, non lo sa declinare neppure nelle sue azioni principali.

Autore

Condividi

Leave a Reply

Your email address will not be published.