Ad aprile del 2020 raccontammo della solitudine del medico tra etica e responsabilità giuridica [1]; molto si doveva fare, nulla è stato fatto ed oggi la cronaca racconta del medico abbandonato e della responsabilità contagiosa per la scelta su chi curare e chi lasciar morire.
Nei mesi di marzo ed aprile, quando l’onda d’urto della COVID-19 ha rischiato di travolgere i sistemi sanitari dei Paesi più colpiti dal virus, l’interrogativo su come gestire l’accesso alle cure in condizioni di risorse sanitarie limitate è diventato pressante, generando risposte differenti e approcci talvolta agli antipodi.
In assenza di sufficienti posti di terapia intensiva per tutti i malati e di protocolli specifici e linee guida consolidate per i medici, ci si muoveva all’interno di un contesto ignoto, tanto dal punto di vista organizzativo quanto in ambito clinico. Tuttora, infatti, molti medici evidenziano i caratteri imprevedibili della malattia causata dal Sars-Cov-2, che rendono ancora più difficili le scelte di allocazione delle risorse: stato della malattia, età, quadro anamnestico, gruppo sanguigno [2], terapie realmente efficaci, tutte variabili che non consentono ancora di fare previsioni sul decorso della patologia e sui conseguenti investimenti di tempo e risorse delle strutture sanitarie.
Questi elementi di incertezza tornano oggi di straordinaria attualità, in un momento di crescita dei contagi e dei ricoveri e, con essi, della preoccupazione per la salute del sistema sanitario delle nostre democrazie. È innegabile, infatti, che tali variabili impediscano di bilanciare con piena consapevolezza eventuali pro e contra delle scelte percorribili.
In primavera, il tema dello “shortage” di risorse sanitarie e delle decisioni sull’accesso alle cure era stato posto in primis dall’adozione delle “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” da parte di SIAARTI [3]: l’ormai celebre documento aveva generato un fervente dibattito, cui era seguito, tra gli altri, l’intervento del Comitato Nazionale per la Bioetica [4].
In particolare, secondo alcuni le Raccomandazioni rischiavano di introdurre dei criteri extra-clinici nella valutazione dei pazienti da curare (quale ad esempio un possibile limite di età per l’accesso alla terapia intensiva), ritenuti contrastanti con i principi della nostra Costituzione.
Il CNB – con il parere dell’8 aprile scorso, pubblicato il 15 aprile, seppur non esaminando in maniera diretta le Raccomandazioni – ha espresso la necessità di ricorrere al “triage in emergenza pandemica”, affidandosi alla “preparedness” (intesa quale predisposizione stabile di protocolli da adottare nelle situazioni di emergenza da pandemia) ed ai criteri di appropriatezza clinica e di attualità, così escludendo in maniera netta il ricorso a principi o criteri anche solo potenzialmente forieri di discriminazione.
Secondo altri, il ricorso a principi di giustizia distributiva doveva (e deve) essere concretamente valutato nell’attuale condizione di emergenza; inoltre, le Raccomandazioni, seppur perfettibili, avevano il pregio di analizzare in maniera diretta e razionale un problema tangibile e concreto: che sussista il rischio (e talvolta ci sia già stata la certezza) di dover scegliere, a parità di condizione clinica e di bisogno di accesso ai trattamenti, chi debba essere curato e chi no.
La diretta esemplificazione del contraddittorio dialettico sul tema si può ricavare dalla dissenting opinion del Prof. Mori, che accompagna il parere adottato dal CNB ed espone la tesi in precedenza citata.
Ciò che il dibattito bioetico dovrebbe scongiurare è la generale incertezza sui criteri di utilizzo delle risorse scarse nel contesto pandemico; l’azione pubblica, invece, dovrebbe evitare che la crisi del sistema sanitario permanga o, addirittura, si aggravi.
Nei mesi passati, il maggiore sostegno al sistema sanitario è sicuramente arrivato dal lockdown nazionale e, altresì, dall’aumento dei posti nelle terapie intensive: misure che, seppur secondo alcuni tardive, hanno contribuito a mitigare il contesto emergenziale e a ridurre il numero dei pazienti ricoverati, scongiurando la saturazione del sistema sanitario.
Tuttavia, l’estate ha portato con sé l’illusione della fine dell’emergenza: la nuova esposizione al rischio di contagio dei singoli si è accompagnata alla mancata programmazione di lungo termine in ambito istituzionale, utile per l’arrivo (non meramente possibile, bensì probabile) di tempi più difficili. E questo nonostante il monito lanciato dal CNB, che in un parere del 28 maggio scorso, così si esprimeva: “Il CNB auspica: a) che vi sia un ripensamento complessivo del nostro sistema di welfare, ed un suo potenziamento dopo anni di tagli; b) che si tenga conto del fatto, risalente, che l’alterazione degli ecosistemi ha favorito e favorisce il diffondersi di patogeni prima sconosciuti; c) che, nel pianificare le misure di prevenzione per le fasi successive al lockdown, ritornino in primo piano le politiche “ordinarie” di salute pubblica, le quali si basano sulla consapevolezza dei cittadini e delle cittadine come elemento fondamentale per la tutela della salute” [5].
In ambito legislativo, si ravvisano soluzioni tampone al problema delle risorse insufficienti: ad esempio, l’art. 117, comma 4, del d.l. “Rilancio”, n. 34 del 19 maggio 2020 [6] ha “bloccato” le azioni esecutive nei confronti degli enti del Servizio Sanitario Nazionale, così mirando a garantire la liquidità necessaria a gestire l’emergenza.
D’altra parte, già in precedenza si era paventata l’ipotesi di introdurre una limitazione di responsabilità per medici e strutture sanitarie, per evitare che le condizioni avverse determinate dal contesto pandemico avessero ricadute di natura giuridica (ed economica) su chi si trovava obtorto collo a combattere il virus in prima linea.
Lo stesso CNB aveva segnalato la proliferazione dei contenziosi giudiziari sorti nei confronti dei medici impegnati nella gestione dell’emergenza, auspicando un intervento legislativo che ne limitasse la responsabilità giuridica. Il Comitato, infatti, poneva l’accento sull’incertezza scientifica caratterizzante l’attuale emergenza pandemica: “nel combattere il contagio da Covid-19 si opera in assenza di linee guida consolidate, di buone pratiche clinico- assistenziali riconosciute come tali dalla comunità scientifica, di evidenze terapeutiche” [7].
Nel Decreto “Cura Italia” [8], infatti, sarebbe potuta confluire una norma a tutela di queste eventuali responsabilità, anche penali: tale intento si era però tradotto in formulazioni poco felici, che parevano quasi opporre uno “scudo penale”, più utile alle strutture sanitarie ed ai relativi dirigenti, che ai medici stessi. La contraddizione era così evidente da essere stata definita, da alcuni, una toppa per coprire il buco causato da anni di depauperamenti, sperperi e ruberie in danno del sistema sanitario.
D’altra parte, anche il CNB ha riconosciuto come la straordinaria pressione a cui è stato sottoposto il servizio sanitario – e la conseguente rapida necessaria ristrutturazione e riorganizzazione – sia stata aggravata dalle condizioni preesistenti dell’intero sistema [9].
A peggiorare ulteriormente il quadro di sottovalutazione del problema sono intervenuti i festeggiamenti per le chiusure di numerosi “reparti COVID” [10], ritenute il sintomo del superamento dell’emergenza, insieme al calo estivo dei contagi e dei ricoveri.
Tuttavia, con l’aumento esponenziale di questi ultimi – evento annunciato e prevedibile – il tema della allocazione delle risorse scarse è tornato attuale e inevitabile. Quest’ultima, peraltro, non si traduce solo nella riduzione di posti letto o di dispositivi sanitari, ma anche nell’insufficienza del personale a disposizione delle strutture sanitarie [11].
Infatti, come denunciato dall’Associazione medici dirigenti con il comunicato del 06.10.2020 [12], i potenziamenti effettuati rispetto ai posti letto non sono stati accompagnati da un aumento dell’organico, condannando gli operatori sanitari a sforzi titanici – come nel periodo primaverile – e ad una solitudine schiacciante di fronte alla eventuale scelta su chi debba essere curato e chi, invece, rischi di essere abbandonato alla malattia.
I mesi che verranno sembrano quindi destinati a mettere nuovamente a dura prova la gestione dell’accesso ai trattamenti intensivi dei pazienti: in presenza di un grande e perdurante squilibrio tra necessità di cura e risorse sanitarie disponibili, si potrebbe tornare a dover decidere chi curare e chi no.
Come già sottolineato, il tema dello “shortage” in ambito sanitario non costituisce di certo una novità, sia in termini di protocolli per la gestione in concreto delle emergenze (catastrofi naturali, terremoti, etc.) che in materia bioetica e di confronto tra studiosi (accesso ai trapianti, medicina di guerra, etc.).
Tuttavia, permangono i due fattori di eccezionalità che rendono peculiare l’attuale pandemia: in primo luogo, il carattere diacronico della riduzione di risorse disponibili.
Nella normalità, gli operatori medici – come ad esempio quelli di Pronto Soccorso – si confrontano quotidianamente con la valutazione di gravità dei pazienti e conseguente più immediata necessità di accesso alle cure (attraverso il cd. “triage”): superata così la momentanea riduzione di risorse, si riesce a garantire in tempi differenti il trattamento di tutti (o, perlomeno, a ciò si ambisce).
Nell’attuale contesto pandemico, la scarsità di risorse è connotata da una evidente permanenza nel tempo, che impedisce di valutare tale variabile come transitoria in un breve arco temporale. E se ciò non bastasse, il perdurante assetto emergenziale sta causando ulteriori ed importanti conseguenze all’intero settore sanitario: lo stesso CNB aveva evidenziato tale aspetto, sottolineando come “le persone che necessitano di assistenza medica non sono solo quelle contagiate dall’epidemia in corso, ma anche le altre colpite da patologie acute e croniche che improvvisamente vedono calare drasticamente personale e mezzi di cura fino ad allora disponibili e per loro essenziali” [13].
Ad oggi, sono evidente dimostrazione di ciò i dati impietosi sulla quantità di interventi rinviati, sull’aumento di decessi per patologie diverse dalla COVID-19, sulla crisi della medicina d’elezione. Si stima che in Italia solo 6 strutture su 10 abbiano ripreso i programmi di medicina elettiva al 100% [14] e che nel mondo sarebbe stato cancellato tra il 68,3 e il 73% degli interventi programmati [15]. A ciò si aggiunge la diminuzione dei ricoveri per patologie diverse dalla COVID-19: ad esempio, i ricoveri per infarto sono diminuiti di oltre il 60% e la percentuale di decessi è più che triplicata rispetto al 2019 [16].
Un quadro sconfortante, che rende evidente come la approssimativa gestione della reazione al fenomeno pandemico abbia avuto e stia avendo conseguenze dirette ed indirette sull’intero sistema sanitario, ancora maggiormente tangibili durante questa “seconda ondata”.
Il secondo aspetto di eccezionalità riguarda la potenziale diffusività sull’intero territorio nazionale (ed internazionale) dell’emergenza sanitaria e, quindi, della riduzione di risorse.
Se la circoscritta collocazione spaziale delle tipiche situazioni emergenziali (catastrofi naturali) favorisce il ricorso a risorse (umane e materiali) di altri contesti territoriali prossimi, la diffusione del virus Sars-Cov-2 rende difficilmente percorribile anche questa soluzione.
Tuttavia, in primavera – periodo in cui le regioni del nord vivevano la situazione più critica – si è spesso fatto ricorso a strumenti e personale di altri contesti territoriali, anche tramite il trasferimento dei pazienti più gravi, che non potevano essere assistiti [17]. La situazione attuale – in cui la diffusione del virus a tutte le latitudini del Paese non è più una possibilità, ma rappresenta la realtà – rischia di rendere più che concreto il pericolo di insufficienza generalizzata delle risorse.
Di fronte al peso (enorme) che viene scaricato su medici ed operatori sanitari, permangono gli interrogativi già sollevati nelle riflessioni dell’articolo “La solitudine del medico tra etica e responsabilità giuridica”[1], tanto preoccupanti quanto attuali.
L’affanno delle strutture sanitarie, infatti, non doveva e non deve essere scaricato interamente sulle scelte individuali compiute dai medici, i quali possono confrontarsi con il peso della scelta etica, ma non devono soffrire la responsabilità della decisione e le relative conseguenze.
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Immagine di Raniero Botti © 2016
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