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Confindustria: “Fu chiesto a Fontana di non istituire zone rosse”. Lui nega

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di Giuseppe Asta

La deposizione dell’ex presidente degli industriali lombardi Bonometti contraddice quella del presidente della Regione. A Milano, intanto, al via una perizia sui morti al Pio Albergo Trivulzio

Continuano a emergere nuove carte dall’inchiesta della Procura di Bergamo sulla mancata zona rossa in Valseriana e sulla non attuazione del piano pandemico nelle prime settimane dell’epidemia da Covid-19. Tra queste quelle del presiAdente della Lombardia Attilio Fontana, datata 29 maggio, e quella dell’ex presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti, cinque giorni dopo.

“Mi sono stupito che dopo l’arrivo dei soldati e Carabinieri non si è più fatta la zona rossa – aveva detto Fontana – il blocco di Codogno aveva funzionato, noi credevamo nella realizzazione della zona rossa”, tanto che era stata proposta al Cts era stata formulata il 3 marzo. Anzi: già dal 21-22 febbraio, in base alle notizie provenienti dalla Cina, era “dell’idea” che bisognasse chiudere “l’intera regione”. Il governatore ha inoltre assicurato di “non avere ricevuto pressioni” rispetto alla zona rossa, e di non avere “mai parlato con nessun rappresentante di Confindustria”. Ai magistrati Bonometti ha però riferito il contrario: “Sì glielo ho chiesto”, aveva risposto agli inquirenti che gli chiedevano se avesse avanzato a Fontana la richiesta “di farsi parte attiva a non far istituire zone rosse ma solo di limitare le chiusure alle attività non essenziali. Regione Lombardia era d’accordo con noi. Se ne è parlato dopo il caso di Codogno”. E ha chiarito: “La mia posizione è stata quella che la zona rossa nella bergamasca non risolveva il problema, perché a mio parere andava chiusa l’intera Lombardia. Ero contrario all’istituzione della zona rossa nella bergamasca. Ho detto di salvaguardare le filiere per le aziende essenziali ho sempre cercato di salvaguardare le aziende lombarde”.

Nel verbale della sua deposizione, Pierino Persico, patron di un importante gruppo industriale di Persico,  dice di “non avere esercitato alcuna pressione per non fare istituire la zona rossa” ma “avere semplicemente espresso le mie preoccupazioni: se non consegnavo i materiali sarei stato soggetto a danni milionari”, e ci sarebbero state conseguenze “negative sui livelli occupazionali”. Agli atti c’è anche un messaggio inviato da Persico all’allora deputato Pd Maurizio Martina: “Se fermiamo tutto siamo rovinati, almeno le aziende che sono fuori dal centro teniamole vive”

Luciana Lamorgese ai pm: “Mandai i militari in Valseriana ma Conte non era informato”

“Quando si parlò della situazione di Alzano e Nembro, ha spiegato il 12 giugno 2020 ai pm l’allora ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, “con il ministro Speranza e mi pare anche con il presidente Conte si cominciò a pensare all’ipotesi di istituire una zona rossa”. E quindi chiamò “il capo della Polizia per rappresentare questa eventualità, affinché si evitassero i ritardi che hanno connotato il caso di Lodi”, dove il coordinamento per la chiusura di quell’area “richiese 24-30 ore”. Il “Capo della Polizia programmò dunque un sopralluogo organizzativo. Il “contingente” arrivò in Val Seriana la sera del 6 marzo. L’8 marzo, poi, Conte, ha proseguito Lamorgese, “ha emanato il noto Dpcm”, dove non era prevista la zona rossa a Alzano e Nembro, ma “disposizioni contenitive dell’intera regione” e “a quel punto abbiamo ritirato gli uomini: quelli che provenivano dalla Lombardia sono rimasti in Lombardia, mentre gli altri sono rientrati”.

Lamorgese ha anche spiegato che “un presidente di Regione, ove avesse voluto ‘cinturare’ un Comune, avrebbe potuto individuare l’obiettivo del territorio da contenere in base ai dati epidemoilogici, ma le questioni tecniche concernenti il controllo di quelle aree” erano “di competenza delle Forze di Polizia”. Nei casi di Alzano e Nembro, ha concluso, “sarebbe stato sicuramente necessario un intervento di uomini e mezzi da parte dello Stato”.

Anche il direttore della prevenzione del ministero della Salute, Giovanni Rezza, nella sua deposizione è tornato alla giornata del 6 marzo, quando si tenne anche una riunione tra Comitato tecnico-scientifico e presidenza del Consiglio: “Mi sembrava che Conte non fosse convinto e avesse bisogno di un forte supporto per convincersi della opportunità di istituire la zona rossa. Io uscii da quella riunione con l’idea che ci fosse indecisione. La mia fissazione restava la necessità di una zona rossa a Nembro e Alzano”. Il Cts, in ogni caso, era al corrente del focolaio bergamasco già da alcuni giorni: “Credo che l’1 o il 2 marzo 2020 il dottor Locatelli (presidente del Consiglio superiore di sanità, ndr), unitamente al professor Brusaferro (portavoce del Cts, ndr), già avevano anticipato la situazione epidemiologica di Alzano Lombardo e Nembro, a margine delle riunioni di quei giorni. Locatelli evidenziava in particolare l’esigenza di attenzionare la zona di Bergamo per il numero dei casi significativo che si stava registrando nei comuni vicini”, si legge nel verbale della deposizione dell’allora segretario generale del ministero della Salute Giuseppe Ruocco. L’ex assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera ha detto ai magistrati di aver trovato “singolare un dispiegamento di forze militari nei giorni del 5-6 marzo nella Bergamasca cui però non ha fatto seguito l’istituzione della zona rossa.

Il sindaco di Alzano, Camillo Bertocchi, ha confermato in Procura che il 5 marzo aveva avuto notizia dalla prefettura della “imminente istituzione della zona rossa: quel giorno ero certo, per i contatti avuti, che alle ore 19 sarebbe scattata. Come sindaco non ho mai chiesto espressamente la zona rossa, ma a partire dal 3 marzo 2020 la davamo per fatta”.  Bertocchi ha detto anche che “nessun imprenditore mi ha fatto pressioni affinché non venisse istituita la zona rossa”.

Nella sua deposizione, Walter Ricciardi, allora consigliere del ministro della Salute, ha ricordato a verbale che “io, Rezza e Brusaferro eravamo i sostenitori dell’importanza di adottare misure il più possibile restrittive”, i cosiddetti “chiusuristi”. Ricciardi ha fatto anche presenteche “insieme ad altri studiosi, ho predisposto un lavoro sull’influenza della partita Atalanta-Valencia”, che si giocò a San Siro il 19 febbraio 2020, “sulla diffusione del virus in relazione al quale ho definito quella partita come una ‘bomba microbiologica'”. Ha poi riferito di aver “riscontrato inizialmente nel contesto internazionale una certa diffidenza in relazione alle scelte adottate dall’Italia”, ma “successivamente anche all’estero si è compreso che l’Italia stava agendo correttamente”

Il nome di Ranieri Guerra non è nell’atto di chiusura indagini

Il nome dell’ex direttore vicario dell’Oms Ranieri Guerra, contrariamente a quanto facevano supporre alcune indiscrezioni circolate nei giorni scorsi, non figura nell’atto di chiusura dell’inchiesta di Bergamo. “La fine dell’indagine mi restituisce giustizia”, ha detto all’agenzia Agi, “dopo anni in cui sono stato additato come responsabile assoluto della diffusione della pandemia e ho subito minacce di morte sono l’unico a non esserci. Non ho interessi a ‘regolamenti di conti’ dal punto di vista umano ma mi auguro che chi mi ha accusato, Francesco Zambon, abbia una coscienza. Per me questa storia è stata un danno enorme, oggi probabilmente sarei ancora all’Oms. Il messaggio in cui dico che fare tamponi a tutti è una c****ta? Volevo dire che in quel momento la priorità era isolare i contatti dei positivi visto il tempo che ci voleva ad avere l’esito dei tamponi “. Per Guerra l’ipotesi di reato era di ‘false dichiarazioni al pm’ in relazione alla sua deposizione da testimone sulla questione del mancato aggiornamento del piano pandemico del 2006. La contestazione resta in piedi ma, considera il suo avvocato Roberto De Vita, “il dato di fatto è che lui che era considerato il baricentro della diffusione del contagio attraverso il mancato aggiornamento del piano non è assieme agli altri che rispondono dell’impreparazione dell’Italia  e il Tribunale di Venezia nel novembre scorso ha archiviato le accuse, in parte nel merito e in parte per l’immunità diplomatica, non potendo entrare nella sostanza delle cose. È plausibile pensare che anche a Bergamo si vada verso l’archiviazione”.

Al via la perizia sulle morti al Pio Albergo Trivulzio?

Oggi è stato anche il giorno dell’udienza con incidente probatorio per decidere o meno su una perizia propedeutica a un eventuale processo sulle morti avvenute durante la prima ondata Covid alla rsa milanese del Pio Albergo Trivulzio. Nei mesi scorsi il gip aveva respinto la richiesta di archiviazione nei confronti dell’ex direttore della struttura, Giuseppe Calicchio, indagato per omicidio, epidemia colposa, violazione delle regole sulla sicurezza.

I risultati della perizia dovranno essere depositati entro 180 giorni, mentre la prossima udienza è stata fissata per il 18 dicembre prossimo. Le indagini prenderanno in considerazione i contagi e i decessi fino al dicembre 2020: lo ha deciso la giudice per le indagini preliminari (gip)  Marta Pollicino nell’udienza di oggi, accogliendo una richiesta avanzata dal legale dell’associazione “Felicita” che rappresenta i familiari delle vittime. L’associazione, che esprime soddisfazione per questa decisione, ha anche depositato “un’istanza per chiedere l’acquisizione del fascicolo di indagine della Procura di Bergamo al fine di valutare eventuali responsabilità nella catena di controllo del Pio Albergo Trivulzio”.

Per l’infettivologo Massimo Galli, uno dei consulenti della difesa, “non  è necessario che questa inchiesta vada avanti. Ci sono alcuni elementi fondamentali ed evidenti: al Trivulzio non avevano la possibilità di fare tamponi. Lo screening fatto solo sulla febbre e sui sintomi respiratori avrebbe comportato il non riconoscere almeno il 50 per cento delle persone infettate tra gli ospiti”. Il virologo Fabrizio Pregliasco, anche lui consulente della difesa, ha detto che “per quello che ho visto anche nel passato tutto è stato fatto secondo scienza e coscienza rispetto a quello che si poteva a quell’epoca con tutti i limiti e le difficoltà”.

All’esterno dell’aula ci sono molti parenti degli ospiti dell’rsa deceduti per Covid-19, che denunciano soprattutto che la struttura li tenesse all’oscuro delle reali condizioni dei propri cari: “Nell’ultima videochiamata con mia mamma l’ho vista allettata, aveva lo sguardo perso e la bocca storta. Ho chiesto cosa avesse: nessuno mi ha detto che era Covid”, spiega una di loro. “Nell’ultima chiamata lo abbiamo visto con l’ossigeno, ma ci hanno detto che aveva solo qualche lineetta di febbre”, riferisce un’altra parente.

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