Leggi l’articolo originale su il Fatto Quotidiano del 29.08.2023
di Giovanni Valentini
Diciamo da sempre che quello dei femminicidi è innanzitutto un problema di cultura collettiva, di mentalità radicata e diffusa.
E sappiamo bene che chiama in causa anche la responsabilità dei media, soprattutto del cinema, della tv, di Internet e della pubblicità, nella rappresentazione distorta della donna come “oggetto del desiderio”, preda da catturare o da sottomettere. Ma la violenza sessuale è diventata ormai in Italia un’emergenza continua, quotidiana: più di 70 vittime dall’inizio dell’anno, da un capo all’altro della Penisola, in particolare al Sud dove nell’ultimo mese il centro di assistenza a Napoli ha ricevuto 800 richieste e è in tilt.
Eppure, nasciamo tutti da una donna. Abbiamo tutti una madre. E magari, una moglie o una compagna, una sorella, una figlia, una nipote. Questo non basta però a impedire al tristemente famoso generale Vannacci, omofobo, xenofobo, razzista e sessista, di affermare che”le femministe sono moderne fattucchiere”. E di proclamare che “le donne non sono come gli uomini”. Ma qui bisogna dargli ragione: spesso sono migliori. Per istinto femminile, sensibilità, equilibrio, senso di responsabilità.
Da che cosa dipende, allora, l’escalation di questo allarmante fenomeno sociale? Perché tanti uomini arrivano a violentare o addirittura a uccidere tante donne, le loro stesse compagne o ex compagne? E soprattutto, si possono prevenire e fermare i femminicidi? E come?
In attesa che il Parlamento approvi al più presto una legge specifica, questa volta ad hoc e non ad personam, magari bipartisan, un documentato e inquietante dossier dello Studio legale Roberto De Vita, penalista e docente all’Accademia Ufficiali della Guardia di Finanza, getta una luce sinistra sulla connessione fra l’abuso di alcolici o di sostanze stupefacenti e la violenza sessuale. Una tendenza che, come si legge nella relazione firmata dalle avvocatesse Valentina Guerrisi e Giada Caprini, “si è ulteriormente acuita nel corso della recente pandemia, a causa dell’incremento del cosiddetto ‘marketing dell’alcol, a cui s’è unita una sempre maggiore facilità nella reperibilità e nel consumo di sostanze stupefacenti’. Questo avrebbe favorito “l’insorgenza in età precoce di comportamenti che, nella maggior parte dei casi, sfociano in atti di violenza, soprattutto di tipo sessuale”.
Il j’accuse dello Studio De Rita è sostenuto da una lunga lista di citazioni, ricerche e analisi, di provenienza scientifica internazionale: dall’American Addiction Centers all’Organizzazione mondiale della Sanità. “Mentre gli studi precedenti si concentravano principalmente sul ruolo dell’alcol nella violenza di strada (prevalentemente maschio-su-maschio), negli ultimi anni – spiegano gli autori del rapporto – c’è stata una maggiore attenzione agli episodi di violenza in famiglia e nelle relazioni intime, compresa la violenza sessuale”.
Queste indagini hanno riscontrato che in dieci Paesi dell’Europa centrale e meridionale sia l’aggressione sessuale sia la vittimizzazione sessuale” sono associate al bere in combinazione con il sesso, contassi più alti nei maschi rispetto alle donne”. E la situazione s’è sensibilmente accentuata in seguito alla pandemia da Covid-19: secondo un rapporto dell’Oms, redatto nel 2021, “le piattaforme digitali sono diventate rapidamente un potente strumento di marketing per le bevande alcoliche”, utilizzando i canali informatici per “indirizzare i singoli utenti a influenzare le preferenze, gli atteggiamenti e i comportamenti dei consumatori’: In altri termini, “l’ecosistema digitale espone le persone alla pubblicità di alcolici, identifica le persone che hanno maggiori probabilità di acquistare e consumare alcol e trasforma gli utenti in obiettivi vulnerabili”.
Sotto accusa, però, non è solo l’alcol o, meglio, l’abuso di alcol. Spesso questo viene associato, infatti, al consumo di sostanze stupefacenti e psicotrope. E si registra una frequente combinazione con l’uso di oppiodi e benzodiazepine o con l’assunzione di cannabis. “Gli studi – è scritto ancora nel dossier dello Studio De Vita – hanno evidenziato una serie di collegamenti tra l’uso di sostanze e il rischio di subire un’aggressione sessuale”. Da una parte, aumenta la vulnerabilità delle vittime potenziali; dall’altra, “l’effetto delle sostanze può abbassare le inibizioni e il livello di attenzione, mettendo a rischio la capacità di riconoscere situazioni pericolose e di prendere decisioni inconsapevoli’. A volte, sono gli stessi aggressori a utilizzare alcol o droghe per rendere le vittime incapaci di resistere o di proteggersi: è quella pratica che gli esperti chiamano drug-assisted rape ovvero “stupro indotto”.
Le ricerche evidenziano che almeno nella metà delle aggressioni sessuali tra conoscenti c’è stato consumo di alcol da parte dell’autore, della vittima o, più comunemente, di entrambi. Questo può aumentare il rischio di violenza sessuale attraverso effetti fisiologici o di aspettativa. La cosiddetta alcohol miopia induce la vittima a focalizzare l’attenzione su aspetti sociali prevalenti, come il divertimento o la maggiore disinibizione nelle relazioni sociali, piuttosto che su quelli di rischio che sono ambigui e meno evidenti. E le aspettative sugli effetti dell’alcol potrebbero spingere una donna ad abusarne, tanto più se di giovane età, per sperimentare gli effetti benefici associati comunemente al bere. Oppure, accrescere la sua convinzione che l’alcol la renda socialmente più “accettabile”.
Alcol, droga, sesso, violenza: questa è, dunque, la catena da spezzare. Per chi crede da sempre nell’antiproibizionismo, cioè nella maggiore efficacia dell’informazione, della dissuasione e della consapevolezza rispetto ai divieti, quello dello Studio De Vita rappresenta un segnale d’allarme da non sottovalutare.Un dossier su cui riflettere. Ma, nello stesso tempo, rafforza la convinzione che proibire non serve e non basta a impedire le scelte e i comportamenti individuali: né gli abusi di alcol e droga né tantomeno i femminicidi. Per contrastare effettivamente la violenza sessuale, occorre risalire alle cause e alle motivazioni. È una grande sfida pedagogica che la società contemporanea deve affrontare, sul piano educativo e mediatico, per cercare quanto meno di contenere abusi e aggressioni. In questo campo, non esistono scorciatoie da imboccare, soluzioni facili e semplicistiche. Occorre un’assunzione di responsabilità collettiva, da parte dei poteri pubblici, delle istituzioni scolastiche e delle famiglie.
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