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di Isabella Maselli
ADELFIA – La pubblicazione delle foto che ritraggono i particolari del dipinto «Martirio di San Simonino da Trento» del pittore 40enne originario di Adelfia Giovanni Gasparro, «hanno provocato migliaia di commenti (solo quelli del profilo sono stati superiori a 6.000) scatenando soprattutto la reazione di presunti follower o amici dal contenuto chiaramente antisemita, con condivisione non solo di insulti ma anche di video e immagini discriminatorie ed inneggianti all’odio verso gli ebrei». È la ragione per la quale la Comunità ebraica di Roma e il suo rabbino capo Riccardo Di Segni si sono costituiti parti civili, insieme con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, nel processo in cui l’artista è imputato per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, con riferimento proprio ai commenti al post sul suo dipinto.
L’opera, datata 2020, riproduce l’omicidio di un bambino di Trento detto Simonino, scomparso misteriosamente la notte del 23 marzo 1475 e ritrovato morto trenta giorni dopo, con una ferita sanguinante al costato afferrato e circondato da membri della locale comunità ebraica intenti a raccogliere in una bacinella il sangue della ferita del bambino, sangue da utilizzare, secondo la credenza, per scopi magici e religiosi. Un falso storico, è stato poi accertato, tanto che il 28 ottobre 1965, durante il Concilio Vaticano II, la Chiesa abolì il culto del falso beato. Le fotografie, caricate sui social il 24 marzo dello stesso anno, ritraggono i particolari del dipinto con al centro un bambino dal volto sofferente, circondato da persone (di religione ebraica) con lame e tenaglie in mano infliggono al suo corpo delle ferite.
Le parti civili, assistite nel processo dall’avvocato Roberto De Vita, evidenziano che le 21 fotografie sarebbero state anche «corredata dalle ferme e precise spiegazioni dell’autore», generando «una moltitudine di interazioni e commenti dal contenuto chiaramente antisemita, razzista e, perfino negazionista», oltre a «moltissimi link a siti esterni, con video e contenuti dal chiaro contenuto antisemita, che arrivavano perfino a minimizzare o negare l’esistenza dell’olocausto e della Shoah». Secondo la Comunità ebraica «l’aver fatto riferimento ad un episodio del tutto smentito dalla storia e, perfino, dalla stessa Chiesa – quale quello dei presunti omicidi rituali ebraici – rappresenta la chiara volontà dell’autore di accostare la figura dell’ebreo, e degli ebrei in generale, ad un popolo dedito al sacrificio umano ed al martirio dei bambini» e questo rafforzerebbe «ulteriormente la portata lesiva del messaggio diffuso. Lesività – evidenziano le parti civili – che in alcun modo può essere scriminata dalla libertà di espressione del pensiero o, tanto meno, dalla libertà di espressione artistica». In conclusione «l’istigazione alla discriminazione e la chiara matrice antisemita delle tesi sostenute dall’imputato – come sostenuto anche dalla pm Larissa Catella che ha formalizzato le accuse – si sono concretizzate in un incitamento rivolto alla collettività, all’odio ed all’uso della violenza in ragione della mera appartenenza ad una diversa comunità religiosa, con gravissima lesione della sfera dei diritti inviolabili delle persone». La richiesta di risarcimento danni è complessivamente di 200mila euro.
Ieri in aula è stato sentito come testimone uno degli investigatori che ha fatto gli accertamenti delegati dalla Procura e le parti civili hanno depositato una serie di documenti. Il processo proseguirà il 31 ottobre con la testimonianza di alcuni componenti della Comunità ebraica.